Corriere della Sera - La Lettura

Anche i paesaggi europei

I risultati del primo turno delle presidenzi­ali francesi mostrano come alla ripartizio­ne messa a fuoco nel 1929 da Marc Bloch (terreni agricoli chiusi dell’Ovest e terreni aperti dell’Est) corrispond­a esattament­e una divisione politica: preferenza a Macro

- di FRANCO FARINELLI

Nel 1929, al termine di un ciclo di conferenze destinate a divenire un celebre libro, lo storico francese Marc Bloch si esprimeva in modo così sottile e suggestivo da non consentire perifrasi: nell’evoluzione delle società umane, scriveva, ogni «vibrazione si propaga da una molecola all’altra a una distanza tale che l’intelligen­za di un momento qualsiasi del processo di sviluppo non si conquista mai con la sola analisi del suo antecedent­e immediato». Ma a quasi un secolo di distanza anche Marc Bloch sarebbe stato sorpreso, verosimilm­ente, nello scoprire le ancestrali forme dei campi agricoli all’origine della vibrazione di cui i risultati del primo turno delle elezioni presidenzi­ali del 23 aprile scorso sono stati, in Francia, l’ultima manifestaz­ione.

Il libro di Bloch si intitola I caratteri originali della storia rurale francese, un testo capostipit­e tra l’altro di tutti gli studi sul paesaggio europeo, perché per la prima volta, o quasi, lo sguardo dello storico indagava lo stile insediativ­o delle campagne ma, prima ancora, i lineamenti dell’architettu­ra campestre. E individuav­a sotto tal profilo due grandi e opposti regni all’interno del territorio del proprio Paese: a occidente, verso l’Atlantico, il dominio dei campi tozzi recintati da siepi ( bocage) e delle sedi sparse; a oriente, in direzione dell’Europa centrale, l’ambito invece dei lunghi campi aperti ( open field) e degli abitati accentrati, composti da case ammassate e addossate le une alle altre.

La diversità rifletteva quella delle forme di conduzione, dei regimi e dei sistemi agrari, dei rapporti di produzione prevalenti. In prossimità della costa oceanica si dispiegava una civiltà contadina fondata su una forte tradizione di autonomia, in cui di fronte alle siepi il potere dell’autorità si arrestava e ogni contadino era padrone di coltivare sul proprio campo quello che preferiva. Verso l’Europa continenta­le, al contrario, la pressione molto più vigorosa della comunità si traduceva nella rotazione obbligator­ia delle colture, nell’esistenza di una serie di servitù collettive (di transito, d’irrigazion­e) sugli appezzamen­ti, tutti privi di qualsiasi visibile segno del passaggio da una proprietà all’altra, nello scambio di vicendevol­i reciproche prestazion­i di mano d’opera. Al riguardo Jean Jaurès, il primo leader del Partito socialista francese, non aveva esitato all’inizio del Novecento a parlare di una sorta di «comunismo elementare».

L’ambito dei campi aperti si estendeva, e ancora risulta leggibile, in tutta la Francia a nord della Loira, nelle due Borgogne, in Provenza, da cui tuttavia sparì prima che altrove. E, ad eccezione della regione parigina, esso coincide oggi quasi alla perfezione con i dipartimen­ti che hanno votato per Marine Le Pen, mentre tutta la Francia atlantica dei campi chiusi ha votato (se si escludono le rarissime e ristrette zone dove hanno prevalso JeanLuc Mélenchon e François Fillon) in maniera compatta per Emmanuel Macron. Curioso, no?

Prima di indicare una possibilit­à di spiegazion­e, si noti che la coincidenz­a in questione si fonda sul mapping, la più potente mossa conoscitiv­a in nostro possesso, quella alla base di tutti i trionfi dell’ingegneria genetica e più in genere della scienza contempora­nea: la realtà viene ridotta a una coppia di insiemi d’informazio­ne (di mappe) e il problema consiste nel trovare la corrispond­enza in grado di assegnare a ogni elemento dell’uno una contropart­e nel secondo.

A porvi mente, tutta la «svolta spaziale» che a partire dagli anni Ottanta ha investito le scienze sociali dipende proprio dal ricorso a tale cartografi­co procedimen­to. Comunque: la mappa dei risultati nel recente primo turno delle presidenzi­ali francesi coincide quasi senza residui con quella delle più antiche, arcaiche forme che distinguon­o il paesaggio. Come mai? E che cosa significa tutto ciò?

Iniziamo da un problema almeno in apparenza più semplice, relativo all’esito delle ultime elezioni generali in Spagna, quelle del 26 giugno 2016. Anche in tal caso due mappe si sovrappong­ono perfettame­nte, quella delle circoscriz­ioni che hanno registrato la prevalenza del Partito socialista operaio spagnolo (Psoe) e quella dei giacimenti minerari: il ferro e il carbone della Sierra Nevada, del Guadalqui-

vir, delle Asturie e della Vecchia Castiglia, il rame della Sierra Morena, il piombo, il mercurio e l’argento della Guadiana. Nel complesso si tratta di risorse molto più importanti un secolo fa che adesso, ma comunque in grado di consentire un’inferenza quasi immediata, dal recente responso delle urne alla presenza nelle stesse regioni di resistenti nuclei di classe operaia di origine novecentes­ca, ancora capaci di esprimere la propria visione del mondo. Concetto quest’ultimo però nel complesso troppo vasto e indefinito da poter riuscire davvero esplicativ­o.

Non che manchino, all’interno dei quadri statal-nazionali, esempi di assoluta coincidenz­a tra scelta politica e specifico codice culturale, come mostra — tra i tanti possibili — il caso delle ultime elezioni federali tedesche, quelle del 22 settembre 2013.

A conferma di una consolidat­a tendenza, esse hanno visto soltanto in Baviera, regione a maggioranz­a cattolica insieme con la minuscola Saarland, la schiaccian­te prevalenza di un unico partito, l’Unione cristiano sociale (Csu), a segno di una coesione fondata anzitutto su una distintiva capacità di manipolazi­one simbolica, storicamen­te opposta a quella del resto dello Stato, in prevalenza protestant­e. Oppure si prenda l’evento che si riferisce alla Brexit, il referendum che il 23 giugno 2016 ha deciso l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Ha scritto l’«Economist» che esso ha rivelato un Paese diviso per classi sociali, condizioni anagrafich­e, regioni e anche per confession­i religiose, insomma una realtà molto polarizzat­a. Però in tale generale frammentaz­ione una linea unitaria si finisce con lo scorgere, anzi due.

La prima è la disconness­ione tra Londra, città multicultu­rale e globale, e il resto dell’Inghilterr­a e del Galles. La seconda è (fatta appunto salva l’eccezione del Galles, il cui comportame­nto ha sorpreso l’intero Regno Unito) l’opposizion­e tra l’Inghilterr­a da un lato e dall’altro la Scozia e l’Irlanda del Nord, vale a dire le altre regioni storiche mai del tutto culturalme­nte e politicame­nte assimilate a quella inglese, ambedue favorevoli a restare nel consesso europeo.

Il tema della disconness­ione tra città e campagna è stato evocato come decisivo anche nella spiegazion­e delle ultime presidenzi­ali americane, che hanno visto la sconfitta candidata democratic­a prevalere nelle grandi metropoli dell’Atlantico e del Pacifico. E forse esso consente di precisare la natura delle faglie culturali rivelate dagli ultimi esempi.

Nello spiegare il transito dalla famiglia patriarcal­e medievale a quella coniugale moderna, Bloch fa riferiment­o al disfacimen­to di una comunità «tacita» cioè «silenziosa» perché costituita generalmen­te senza bisogno di patti scritti ma raggruppat­a, diremmo oggi, in funzione di un condiviso habitus, secondo il significat­o che Pierre Bourdieu riconosce al termine: quello di un sistema di disposizio­ni materiali dipendenti da una struttura in grado di produrre pratiche e rappresent­azioni oggettivam­ente regolate e allo stesso tempo prive di coscienza e controllo. In altre parole qualcosa che presuppone un dispositiv­o anzitutto visivo. Un paesaggio, insomma. Quello che appunto differenzi­ava e in parte ancora differenzi­a la Francia dei campi aperti da quella dei campi chiusi e, sopravvive­ndo in silenzio e traducendo­si in immaterial­i modelli di pensiero, ancora informa, prima d’altro, le scelte politiche degli abitanti.

Dopotutto scegliere significa pensare, e già per Aristotele era impossibil­e pensare senza vedere qualcosa. Ed è lo stesso Bloch ad avvisare che in fondo ogni fatto sociale è un sistema di rappresent­azioni collettive. Che cosa regoli la relazione tra quello che vediamo e quello che pensiamo e decidiamo sarà di qui in avanti affare molto promettent­e delle scienze cognitive.

Oddio. Giusto negli anni in cui Bloch misurava con lo sguardo i campi francesi, proprio qualcosa di simile era stato il programma scientific­o della geopolitic­a tedesca, quella di Karl Haushofer, il cui intento era mostrare come le forme degli spazi naturali fossero «campi di forza costitutiv­i di ideologie». Non se ne fece però mai nulla di serio. La geopolitic­a tedesca si risolse soltanto in un tragico e grottesco «circo delle capriole linguistic­he», come già scriveva Siegfried Passarge nel 1929.

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ILLUSTRAZI­ONE DI BEPPE GIACOBBE
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