Corriere della Sera - La Lettura
C’è un errore all’origine di questa mostra
L’interpretazione di un quadro di Angelo Morbelli (marinai nell’ultimo porto? Ospiti di un ricovero per anziani?) dà il via a un sofisticato allestimento alla Fondazione Prada di Venezia. Grazie a tre artisti tedeschi che «navigano a vista»
Tutto comincia da un errore: l’interpretazione di un quadro di Angelo Morbelli, Giorni... ultimi, del 1883, che ritrae un gruppo di anziani dalle lunghe barbe bianche riuniti in una grande sala spoglia. L’artista tedesco Thomas Demand, di fronte a quel quadro struggente e malinconico, pensava fossero marinai alla fine della loro esistenza. Ma non era così. Ritraeva invece il Pio Albergo Trivulzio (e chissà se Demand sapeva che proprio in quelle stanze del ricovero per anziani, nei primi anni Novanta, sarebbe cominciata in Italia la stagione di Mani pulite): in ogni caso, un dipinto intenso, misterioso, bellissimo.
Ma, soprattutto, un quadro che ha dato il via a un intreccio di intelligenze e sensibilità che ha portato a una mostra per alcuni versi criptica, ma indubbiamente ammaliante, perché sin dal titolo, The Boat is Leaking. The Captain Lied («La barca sta affondando. Il capitano mente», verso tratto dalla canzone Everybody knows, di Leonard Cohen) offre un’idea di racconto nel quale si entra lentamente, come in un viaggio sospeso nel tempo, scandito da costanti riferimenti letterari, evocazioni e rimandi. Un progetto che è soprattutto un’idea sperimentale, una vera esplorazione sul senso e sul modo di fare mostre.
Regista dell’operazione, Udo Kittelmann, direttore della Nationalgalerie di Berlino, che aveva curato, nel 2001, il Padiglione tedesco vincitore del Leone d’oro. Ma veri protagonisti, sono tre artisti, tutti tedeschi anche se differenti per formazione e linguaggi: Alexander Kluge (scrittore e regista), Thomas Demand, (autore che lavora con la fotografia) e Anna Viebrock (scenografa e costumista). Così ha preso vita negli spazi di Ca’ Corner della Regina, sede veneziana della Fondazione Prada, una mostra con un incipit che rappresenta il dovuto omaggio: sette capolavori di Morbelli dedicati proprio al Pio Albergo Trivulzio. Da qui inizia un susseguirsi di installazioni, fotografie, film, sino a ricostruzioni architettoniche e scenografie teatrali. Un insieme di contaminazioni tra linguaggi all’interno di spazi inattesi e volutamente labirintici, che permettono di scoprire come il dialogo, la condivisione e la forza progettuale degli artisti, possa offrire una interessante e nuova opportunità espressiva.
È proprio il caso di questa sofisticata mostra, soprattutto se messa a confronto con quella spettacolare di Damien Hirst, lontana solo pochi passi: «Il carattere sperimentale dell’intero progetto testimonia anche l’incertezza di un presente in cui sempre più è necessario navigare a vista», sottolineano Miuccia Prada e Patrizio Bertelli nel presentare l’ultimo lavoro della Fondazione. «Navigare a vista», dunque: quasi a ricordare (seppur in modo molto diverso) che siamo tutti nella stessa barca. Così, in un gioco di contrapposizioni, la mostra appare come un percorso metaforico tra inquietudine e speranza, tra identificazione e rifiuto, articolandosi attraverso linguaggi ovviamente diversi ma sempre uniti da un armonico codice di racconto.
Ma per comprendere meglio la mostra, forse vale la pena ricordare le identità dei tre autori e soffermarsi sulla Weltanschauung di ognuno di loro, benché la mostra, al di là di ogni singola «visione del mondo», vada intesa e percepita proprio come un unico lavoro a sei mani.
Il visitatore viene subito accolto al piano terra da un film di Alexander Kluge, classe 1932, pioniere del nuovo cinema tedesco e già Leone d’oro alla carriera. Sono immagini di un film che va in loop: Die sanfte Schminke des Lichts («Il leggero trucco della luce»), in cui sono incluse anche altre opere dai titoli surreali e divertenti tra cui Le star del cinema con il raffreddore o Di notte le lampade dello studio sognano la loro vita vera, che mettono bene in luce lo spirito di questo intellettuale raffinato che coniuga impegno politico e cruda raffinata estetica. La mostra, suddivisa in tre piani, con molte sale, stanze collegate una con l’altra, con tante porte dovunque (porte normali, porte con insonorizzazioni, porte con oblò), diventa così un luogo astratto, fuori da un’idea di spazio convenzionale per trasformarsi in autentica esperienza da vivere lasciando dietro di sé l’intento di voler comprendere tutto e subito. Si invita invece alla dimensione emotiva, il «sentire» lo spazio, il percepire l’atmosfera di un tempo costantemente fuori dal tempo.
È quello che sembra volere Anna Viebrock che, immediatamente dopo l’esposizione dei quadri di Angelo Morbelli, ci conduce dentro la ricostruzione degli spazi del Pio Albergo Trivulzio, invitandoci a sedere su quelle lunghe panche, proprio come i vecchi ospiti della casa di riposo. E nel farlo non si può non pensare a quanto, anche sui nostri volti, sia impressa la traccia di un’intera esistenza. Per fortuna ci sono 16 schermi dove si possono esplorare le visioni di Kluge e sul muro una foto di Demand: un aiuto a dimenticare (o forse a rifletterci sopra di più) l’ineluttabile scorrere del tempo.
Tutta la mostra è disseminata di oggetti, installazioni e scenografie di ambienti con citazioni letterarie, cinematografiche e con omaggi anche affettivi: dall’aula del palazzo di giustizia di Bruxelles basato su La ragazza senza storia di Alexander Kluge alla scenografia della vetrina di un ex grande magazzino ad Halberstadt, luogo di nascita dello stesso regista.
E poi le immagini di Thomas Demand. Con i suoi lavori indaga la società, il nostro mondo tecnologico, ma lo fa attraverso un percorso di finzione. Considerato uno degli artisti più influenti nell’ambito della fotografia contemporanea, Demand ci porta a riflettere sull’inganno della percezione: le sue foto rappresentano realtà «apparenti», spazi ricostruiti attraverso una minuziosa e maniacale messa in scena con modelli di carta. Anche nel suo lavoro, dunque, come in tutta la mostra, verità e finzione si intrecciano, creando un ulteriore elemento di speciale disorientamento e, al tempo stesso, di affascinante unità. La mostra appare come un casa abitata da fantasmi dove siamo invitati come ospiti, spinti a scoprire quello che c’è oltre ogni porta, oltre il visibile. Indubbiamente c’è un reale filo rosso che accomuna questi artisti: tutti e tre lavorano sul concetto di collage, di montaggio, di finzione. E la mostra appare proprio come una inaspettata raccolta di storie, come una misteriosa ricostruzione di disseminati frammenti, forse gli stessi, talvolta indecifrabili, che compongono l’esistenza di ogni essere umano.