Corriere della Sera - La Lettura
I RAGAZZI NON SONO RAPPRESENTATI
Quando penso agli adolescenti, mi tornano alla mente due versi di Cesare Pavese: «Traversare una strada per scappare di casa/ lo fa solo un ragazzo», ma questa è un’immagine ben diversa da quella reale di ragazzi di 16 e 17 anni in carne e ossa, alle prese con L’età difficile ( titolo di un bel saggio di Elisabetta Mondello edito da Giulio Perrone), che reclamano una propria esistenza, mentre sto loro di fronte durante una lezione.
In questi mesi incontrando diversi alunni nelle scuole ho sentito un disagio benigno. Mi sono reso conto che gli adolescenti sono vittime di un duplice equivoco; una certa parte del mondo della cultura li vede come semplice stigma narrativo e quindi li fa assomigliare all’Agostino di Alberto Moravia, all’Arturo di Elsa Morante, o all’Alex e Adelaide di Enrico Brizzi; un’altra parte invece li vede come bacino d’utenza, come fetta di mercato. Entrambe queste posizioni non rappresentano la realtà, ma ne sono una semplificazione brutale, che spesso e volentieri produce strategie culturali (penso a certe campagne di invito alla lettura), che non favoriscono l’inclusione, ma piuttosto la fuga e l’esclusione. Per loro la lettura e la scrittura sono uno strumento per non sentirsi soggetti passivi. Le loro letture sono diverse, voraci e irregolari, così come le loro scritture; a colpire è il loro desiderio di essere protagonisti. C’è un universo di parole parallelo a quello che noi comunemente vediamo, in cui questi ragazzi costruiscono narrazioni a volte ingenue, altre volte potenzialmente forti. Piattaforme internet di pubblicazione (wattpad e simili), che spesso vengono associate all’idea dell’autopubblicazione, ma che per i ragazzi si trasformano in agorà, dove scambiarsi testi, o in comunità di lettori che danno vita a interessanti forme di riscritture (cosa sono infatti le fan fiction?), in cui con disinvoltura si affrontano i generi e gli stili diversi.
Al mio stupore molti di loro hanno opposto una semplice evidenza: «Niente di quello che leggiamo ci rappresenta». E io credo che queste sette parole spieghino bene lo stato di impasse di buona parte della nostra narrativa.