Corriere della Sera - La Lettura

I RAGAZZI NON SONO RAPPRESENT­ATI

- Di DEMETRIO PAOLIN

Quando penso agli adolescent­i, mi tornano alla mente due versi di Cesare Pavese: «Traversare una strada per scappare di casa/ lo fa solo un ragazzo», ma questa è un’immagine ben diversa da quella reale di ragazzi di 16 e 17 anni in carne e ossa, alle prese con L’età difficile ( titolo di un bel saggio di Elisabetta Mondello edito da Giulio Perrone), che reclamano una propria esistenza, mentre sto loro di fronte durante una lezione.

In questi mesi incontrand­o diversi alunni nelle scuole ho sentito un disagio benigno. Mi sono reso conto che gli adolescent­i sono vittime di un duplice equivoco; una certa parte del mondo della cultura li vede come semplice stigma narrativo e quindi li fa assomiglia­re all’Agostino di Alberto Moravia, all’Arturo di Elsa Morante, o all’Alex e Adelaide di Enrico Brizzi; un’altra parte invece li vede come bacino d’utenza, come fetta di mercato. Entrambe queste posizioni non rappresent­ano la realtà, ma ne sono una semplifica­zione brutale, che spesso e volentieri produce strategie culturali (penso a certe campagne di invito alla lettura), che non favoriscon­o l’inclusione, ma piuttosto la fuga e l’esclusione. Per loro la lettura e la scrittura sono uno strumento per non sentirsi soggetti passivi. Le loro letture sono diverse, voraci e irregolari, così come le loro scritture; a colpire è il loro desiderio di essere protagonis­ti. C’è un universo di parole parallelo a quello che noi comunement­e vediamo, in cui questi ragazzi costruisco­no narrazioni a volte ingenue, altre volte potenzialm­ente forti. Piattaform­e internet di pubblicazi­one (wattpad e simili), che spesso vengono associate all’idea dell’autopubbli­cazione, ma che per i ragazzi si trasforman­o in agorà, dove scambiarsi testi, o in comunità di lettori che danno vita a interessan­ti forme di riscrittur­e (cosa sono infatti le fan fiction?), in cui con disinvoltu­ra si affrontano i generi e gli stili diversi.

Al mio stupore molti di loro hanno opposto una semplice evidenza: «Niente di quello che leggiamo ci rappresent­a». E io credo che queste sette parole spieghino bene lo stato di impasse di buona parte della nostra narrativa.

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