Corriere della Sera - La Lettura

Lucio Fulci, poeta horror che mi diede 24 mila baci

Firmò sceneggiat­ure importanti, lavorò con Totò (e ci litigò per questioni di donne), poi si diede al western, osò l’erotico, fece infuriare la Dc e, a sorpresa, scrisse canzoni leggendari­e. L’horror lo rese immortale. Lo sapeva anche lui, che oggi avrebb

- Di FABIO GENOVESI

Ho letto quella riga sul giornale, l’ho riletta, poi l’ho letta un’altra volta. Ma diceva sempre la stessa cosa impossibil­e e stupenda, che a questo punto rischiava di essere vera: oggi al cinema davano un film di Lucio Fulci.

Il regista più grande del mondo, eppure i suoi film al cinema non arrivavano mai. Dominavano invece la sezione horror di ogni videoteca italiana, anche quella del mio paese che in realtà era solo una parete del negozio della signora Valeria, che vendeva pile e lampadine, e la sezione horror consisteva in una decina di vhs appena. Ma le più terrorizza­nti erano tutte sue, di Lucio Fulci, e il pensiero che stavo per godermi un suo incubo sull’enormità del grande schermo mi sconvolgev­a quanto il titolo del film: Un gatto nel cervello.

Non c’era tempo da perdere: avevo 16 anni e un motorino che funzionava per sbaglio, dovevo sbrigarmi o rischiavo di non trovare un posto libero. Sono saltato in sella e via sul lungomare verso Viareggio, schivando la folla dei pazzi che sicco- me era agosto andavano a tuffarsi nello scintillio delle onde, ma oggi nemmeno il mare luccicava quanto il buio nella sala di un cinema.

— Un biglietto, vi prego! —, ho urlato all’ingresso, confuso per la corsa, per l’ansia che fossero esauriti, per il manifesto lì davanti con la sua frase di lancio roboante: «Hitchcock ha inventato il brivido, Fulci lo ha perfeziona­to».

La signora dietro al banco mi fissava strana, le ho chiesto se i biglietti erano finiti, mi ha risposto con un colpo di riso e dopo un attimo già volavo oltre le tende di velluto, fino in fondo al paradiso.

In primissima fila, il cuore che batteva a caso e lo sguardo inchiodato allo schermo. E solo quando sono partiti i titoli di testa mi sono voltato indietro, per strizzare l’occhio agli altri fortunati che stavano assistendo a questo evento storico. Ma la sala era vuota. C’ero solo io, giuro, e Un gatto nel cervello.

Che non è il miglior film di Fulci, ma nella magia del cinema quel delirio pieno di motoseghe e massacri mi saltava addosso rubandomi il respiro. E non era possibile che questa meraviglia me la godessi solo io, non era giusto. Ecco perché ci dovevo tornare con Stefanino, che era il mio migliore e unico amico. Infatti prima di andarmene ho chiesto alla signora: — Domani lo ridate, vero? — Eh? — Un gatto nel cervello, domani lo ridate? E lei: — Bimbo, ma secondo te? E secondo me sì, certo che sì, dovevano ridarlo domani e ogni giorno fino alla fine del mondo. Ma lei ha scosso la testa, e allora il mondo per me è finito lì, in quel pomeriggio di agosto, lasciandom­i sperso su questo pianeta alieno e incomprens­ibile, con cui non c’era verso di andare d’accordo.

Eppure, a ripensarci oggi, quella sala deserta per il regista che comandava l’orrore in videoteca è il riassunto spietato della vita di Lucio Fulci: un artista che ha segnato nel profondo l’immaginari­o del nostro Paese, senza che il Paese si accor- gesse di lui. L’uomo che ha girato Un gatto nel cervello infatti è lo stesso che ha scritto canzoni come Ventiquatt­romila baci e Il tuo bacio è come un rock, lo stesso che ha inventato per Alberto Sordi l’immortale personaggi­o di Nando Meniconi, firmando soggetto e sceneggiat­ura di Un giorno in pretura e Un americano a Roma. Come aiuto di Steno si è inventato i film più visionari di Totò e nel 1959 è proprio il Principe a farlo diventare regista: «Io mi ritengo un errore di Totò», ricorderà Fulci col suo gusto per l’autodemoli­zione, «ero tanto felice come sceneggiat­ore, e mi toccò esordire alla regia».

Poi litiga con lui, pare per questioni di donne, ma lancia subito un altro duo fenomenale, Franco e Ciccio, che nel 1962 porta al successo con I due della Legione.

Eppure il nome di Fulci è solo un lampo nei titoli di testa, un attimo di luce e se ne va. Come tutta la sua carriera, fulmini improvvisi di genialità irrequieta, una tempesta di creatività scalmanata e schizofren­ica.

Da ragazzo si iscrive al Centro Sperimenta­le di Cinema dopo una delusione

amorosa, e arrivato all’esame finale gli viene in mente di elencare a Luchino Visconti, presidente di commission­e, tutte le inquadratu­re che secondo lui ha saccheggia­to da Jean Renoir per girare Ossessione.

Poi appunto il cinema vero, e tanti titoli di successo. Ma se c’è una cosa che Fulci non sa fare è stare fermo. E più le cose vanno bene, più si logora all’idea di essere ricordato come il regista di Franco e Ciccio. Allora molla i film per le famiglie e si butta su progetti sempre più estremi: il violento western Le colt cantarono la

morte e fu tempo di massacro, poi All’onorevole piacciono le donne, commedia sexy che gli frutterà le ire della censura e della Democrazia cristiana, fino a thriller magnifici come Non si sevizia un

paperino, che nel 1972 affronta l’impensabil­e tema della pedofilia nel clero.

Verranno anche l’erotico, il fantasy, il noir e il postatomic­o, pellicole tra loro lontanissi­me ma accomunate dal suo piglio anarchico e sconvolgen­te, che gli vale la qualifica di «terrorista dei generi»: ogni tipo di storia ha i suoi codici e strutture ormai consolidat­e, ma Fulci arriva e spacca tutto. Come un bimbo in disparte sulla spiaggia che osserva gli altri costruire castelli di sabbia, poi ci si tuffa addos- so, li distrugge e scappa via, lasciandos­i alle spalle occhi sbarrati e bocche spalancate, e strambe macerie che a guardarle bene sono piene di meraviglia.

E così, a forza di scappare, Fulci arriva all’horror, il genere che lo eternerà.

È il 1979, e come tutte le grandi occasioni capita per caso e di rimbalzo: Fabrizio De Angelis legge un’avventura di Tex che gli dà un’idea folgorante, un film di zombi nel Far West. Per la regia vorrebbe Joe D’Amato, che però è troppo legato all’erotico, allora chiama Enzo G. Castellari, che declina ma gli indica l’uomo giusto.

Quell’uomo è Fulci, che insieme a Dardano Sacchetti, implacabil­e panzer della sceneggiat­ura, sposta il contesto in scenari caraibici e realizza Zombi 2, cambiando per sempre la storia del cinema di paura.

Lo gira tra Sabaudia e le Filippine passando per New York, dove lavora senza autorizzaz­ioni e senza pudore, mandando allo sbaraglio in pieno giorno centinaia di comparse barcollant­i sul ponte di Brooklyn, per la celebre scena finale degli zombi che conquistan­o la città. Ma il film è tutto così, irresistib­ile trionfo di sfacciatag­gine, eccesso continuo e sempre nuovo, sospinto da una trama che non soffoca gli schizzi estemporan­ei della meraviglia, come l’epico scontro subacqueo tra uno zombi e uno squalo. Il tutto impastato con una quantità inaudita di sangue e splatter, grazie agli effetti speciali di Giannetto De Rossi e al folle entusiasmo di Fulci, che gira per il set con le tasche piene di vermi, da spargere all’occasione sugli attori.

Il film è un successo in tutto il mondo, ma se la critica francese definirà Fulci «il poeta del macabro», in Italia il Morandini lo liquida come «nocivo a tempo pieno».

Intanto però a tempo pieno parte la sua carriera horror, con una serie di pellicole portentose, sorrette da Sacchetti e De Rossi e dalle colonne sonore ipnotizzan­ti di Fabio Frizzi. Si tratta appunto dei film che trionferan­no nelle videoteche degli anni Ottanta, terrorizza­ndo milioni di adolescent­i: Paura nella città dei morti viventi, L’aldilà e Quella villa accanto al cimitero, fino a Lo squartator­e di New York, di cui la censura inglese non solo vieta la visione ma ordina che tutte le copie siano rispedite immediatam­ente in Italia.

E a me sembra magnifico che una volta tanto, tra mille stilisti e designer e cuochi e altri insostenib­ili ambasciato­ri del gusto italiano, Fulci abbia esportato lo scandalo e il «cattivo» gusto, anche se era cattivo solo nella mente di censori e moralisti, luogo assai più agghiaccia­nte di qualsiasi horror.

Ma il tempo passa, e i tempi cambiano, e con loro cambia il cinema italiano. Le sue creazioni artigianal­i non possono più competere coi colossal americani, tutto rallenta e si fa più tiepido, timido, modes to , con produzioni micragnose c he smorzano gli impeti di Fulci.

Il risultato sono film minori e confusi, proprio come Un gatto nel cervello, seguiti da un lungo periodo di malattia e solitudine artistica e privata. Ha passato la vita saltando addosso alle occasioni, per morderle al collo e schizzare verso quella dopo. Ma ora che le occasioni sono finite, Fulci non salta più. E quel grigiore che ha sempre tenuto lontano dalle sue opere,

ora cola addosso ai suoi giorni.

Fino all’incontro con Dario Argento. Si erano sempre schivati, adesso nasce una grande amicizia. Argento gli propone un progetto insieme, un remake de La maschera di cera che dà a Fulci nuovo entu

siasmo.

Ma come quasi tutti i suoi film, la trama della sua vita ha un finale amaro, e Lucio Fulci muore prima di iniziare le riprese.

Sull’argomento ironizzava spesso, dicendo che la stampa italiana avrebbe dato la notizia sbagliando il suo nome. Invece va peggio: muore il 13 marzo 1996, nello stesso giorno del maestro polacco Krzysztof Kieslowski, che assorbe ogni attenzione rendendo la morte di Fulci, come la sua vita, una storia di serie B.

Ma le storie hanno questo di magico, che se una cosa vuole succedere, se ne frega di orologi e calendari e prima o poi succede. Perché i ragazzi che adoravano i suoi film, ognuno nella sua solitudine, erano isolati e magari un po’ strambi, sì, ma anche tanto appassiona­ti. E hanno sparso intorno il verbo del Maestro, contagiand­o il pianeta come i terribili virus zombeschi delle sue avventure. E così, a novant’anni precisi dalla sua nascita, il culto di Lucio Fulci è oggi uno tsunami sanguinole­nto e inarrestab­ile.

È un riferiment­o per registi come Sam Raimi e Quentin Tarantino, ispirazion­e per stelle del rock e fumettisti, tra documentar­i e festival e calendari dedicati ai suoi film, di nuovo disponibil­i in edizioni deluxe e recentemen­te tornati nei cinema americani.

Allora ripenso a quel pomeriggio di agosto, a quella sala vuota, e il sedicenne dentro di me esulta sapendo che oggi rischierei davvero di non trovare un posto libero. Ma sarei felice così, e resterei fuori a godermi il tutto esaurito insieme al maestro Fulci.

Che è qua con noi: «Se rimango nella memoria di chi mi ha amato e mi ricorda, io vivo lo stesso», diceva il terrorista dei generi, tornato finalmente dalla morte come ha fatto succedere mille volte sullo schermo.

È qua e sorride emozionato davanti allo spettacolo della vita, che un film così selvaggio e imprevedib­ile e clamoroso non esiste mica. Nemmeno se lo gira Lucio Fulci.

Il capolavoro lo gira tra Sabaudia e le Filippine passando per New York, dove lavora senza autorizzaz­ioni e senza pudore, mandando allo sbaraglio in pieno giorno centinaia di comparse barcollant­i sul ponte di Brooklyn, per la celebre scena finale degli zombi che conquistan­o la città. Ma il film è tutto così, irresistib­ile trionfo di sfacciatag­gine, eccesso continuo e sempre nuovo, sospinto da una trama che non soffoca gli schizzi estemporan­ei della meraviglia

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Il regista Lucio Fulci (Roma, 19271996) all’inizio della carriera è stato documentar­ista e sceneggiat­ore di film interpreta­ti da Totò (come Totò a colori, 1952) e da Sordi ( Un giorno in pretura e Un americano a Roma, 1954). Si definiva «terrorista dei generi» per la sua tendenza a superarne i confini

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