Corriere della Sera - La Lettura
Gli amori di Hockney Dipingere, fumare e denaro a sufficienza
Una grande mostra a Venezia, un’altra a Parigi, una appena chiusa a Londra, un’altra in programma a New York: alla vigilia dei suoi 80 anni, è l’artista più «visitato». Qui svela gusti, passioni e dipendenze A partire da Picasso, la primavera inglese e le tecnologie digitali
Il prossimo 9 luglio a Los Angeles, per David Hockney sarà un giorno come un altro. Il grande maestro della Pop Art compirà ottant’anni ma ha già deciso: «Perché mai dovrei festeggiare? L’unica cosa che farò sarà dipingere, come faccio ormai ogni giorno da sessant’anni, perché solo così non penserò ai miei anni e al mio corpo». L’accento suona come uno strano intreccio tra quello del borgo di Bradford, cuore dello Yorkshire degli operai e delle industrie tessili dove è nato nel 1937, e la Los Angeles snob dei ricchi collezionisti e dei curator più raffinati che da trent’anni è diventata (tra Nichols Canyon, Santa Monica Boulevard e Malibu) la seconda patria di quest’uomo piccolo con lo sguardo azzurro chiaro da bambino molto dispettoso accentuato dalle lenti degli occhiali rotondi — azzurri sono anche la camicia e i suoi incredibili calzini corti. Hockney esibisce quel ciuffo, ancora folto, di capelli (oggi bianchi, un tempo biondi) che è uno dei suoi «marchi di fabbrica» e che, quando esce, ama nascondere sotto un cappelluccio bianco. Addosso porta un improbabile gessato grigio d’altri tempi.
La suite con vista sui giardini delle Tuileries, al sesto piano del Le Meurice, è ingombra di cose: piatti con resti della colazione, altri già pronti per quella che verrà, un grande cesto con frutta, tanti giornali, un portacenere colmo di mozziconi, pacchetti di sigarette (con in bella evidenza la scritta Fumer Tue, il fumo uccide) e il bastone che lo aiuta a muoversi poggiato al bracciolo del piccolo divano damascato su cui è seduto. «Le spiace se fumo?», chiede immediatamente perché tre sono le passioni di Hockney, forse il più grande degli artisti viventi o quantomeno il più conosciuto (mezzo milione di visitatori della monografica appena chiusa alla Tate Britain di Londra). Nell’ordine: dipingere, fumare e money, i soldi, «ma non troppi, solo quelli che mi bastano per vivere bene». E precisa: «Non amo il denaro in maniera smodata, ma il denaro mi piace perché può aiutarmi a vivere meglio e mi permette di dipingere con tranquillità». In che modo? «Con i soldi posso comprare colori migliori, pennelli migliori, tele migliori: non vorrei mai che i miei dipinti diventassero meno brillanti».
D’altra parte è difficile non pensare ai soldi quando il suo Building. Pershing Square, acrilico su tela del marzo 1964, è stato venduto da Sotheby’s New York il 18 maggio per 7.887.500 dollari. Così come è altrettanto difficile, se non impossibile, sfuggire alla intelligente ironia di certi suoi capolavori come Sunbather del 1966, Pool with two
figures del 1972 o il doppio ritratto di Christopher Isherwood e Don Bachardy del 1968 dedicati alla comunità (camp) della California («Volevo prendere in giro tutto quel mondo») che aveva iniziato a frequentare molto assiduamente dal 1961, quando l’omosessualità (da Hockney mai nascosta senza però essere mai sbandierata) in Gran Bretagna era ancora un reato. La stessa ironia che lo spingerà a intitolare uno suoi ritratti-capolavoro dedicato alla multi-miliardaria e mecenate Betty Freeman, per molti «l’ultima dei Medici» e da Hockney definita invece, proprio nel titolo di quell’acrilico su tela del 1967 di quasi quattro metri di lunghezza e quasi due di altezza, una Beverly Hills Housewife, una casalinga di Beverly Hills.
Durante questa intervista con «la Lettura» si rincorreranno più volte i nomi dei maestri di Hockney: Beato Angelico, il Brunelleschi, l’Alberti, Piero della Francesca, i francesi «fino agli impressionisti» («Perché poi gli stessi francesi hanno deciso che la pittura era morta»), Hopper, Jasper Johns, Dubuffet, ma anche Charlie Chaplin. Oltre a Picasso: per Hockney «il più grande di tutti, quello che riesce ogni volta a sorprendermi. Per questo tengo il catalogo delle sue opere accanto al mio letto, aprirlo è ogni volta un’emozione che si rinnova». A Picasso — quel Picasso con cui si era rappresentato in
Artist and Model, un’acquaforte del 1974 — lo sperimentatore Hockney (capace di utilizzare per primo, o quasi, le possibilità artistiche dei collage su carta di giornale, delle polaroid, del computer, del fax, dell’iPad) si avvicina per un’altra passione: «Anche lui, ne sono sicuro, ne sarebbe entusiasta, passerebbe tutto il giorno con l’iPad in mano, come faccio io. È uno strumento incredibile perché ti permette di usare una tecnologia avanzatissima per disegnare all’antica». Tra i maestri non citati: il padre Kenneth (David è il quarto di cinque fratelli), aiuto-contabile con la passione dell’arte, mentre dalla madre Laura erediterà, almeno per un certo periodo, la passione per i cibi vegetariani.
A Hockney sono dedicate due grandi mostre che, quasi in contemporanea, si apriranno la prossima settimana. Una, quella alla Galleria d’arte moderna di Ca’ Pesaro, Venezia (dal 24 giugno al 22 ottobre), propone 82 ritratti e una natura morta ed è la prima monografica di Hockney in Italia (la mostra nasce nel 2016 per la Royal Academy): tutto merito di Gabriella Belli, direttrice della Fondazione Musei Civici di Venezia, che aveva conosciuto Hockney a Londra e che lo aveva a lungo inseguito per portarlo a Ca’ Pesaro. L’altra a Parigi al Centre Pompidou (dal 21 giugno al 23 ottobre), rappresenta invece la seconda tappa (la più cospicua) di un tour iniziato alla Tate Modern di Londra e che si chiuderà a ottobre al Met di New York, con circa trecento opere (dalle sue swimming
pool degli anni Settanta ai recentissimi grandi paesaggi con alberi).
L’uomo che ha letteralmente cambiato e reso in qualche modo eterna la Pop Art (con i suoi colori, con le sue atmosfere così irreali) non sfigurerebbe tra i protagonisti dei suoi dipinti, con quella sua aria impertinente nonostante l’età. In certi momenti sembra addirittura il personaggio di un comics e, certo, questo non gli spiacerebbe: lui stesso si è più volte ritratto in maniera ben poco convenzionale: con il papillon oppure in mutande, da adolescente come da vecchio signore dall’aria British.
Ma, in fondo, che cosa pensa dell’arte Hockney?
«Che non vuol dire sempre e solo progresso. Perché, se così fosse, quella contemporanea dovrebbe essere bellissima, ma purtroppo non lo è. La fotografia ha finito per prendere il suo posto, tutti hanno una macchina fotografica, tutti sono capaci di fare fotografie. Però la fotografia è noiosa. Condivido in pieno quello che diceva Edvard Munch: “Non potrà mai competere con l’arte perché non sarà mai in grado di dipingere l’Inferno e nemmeno il Paradiso”».
Una convinzione che in qualche modo «cancella» i suoi incredibili «Photocollage» degli anni Ottanta (le piscine di Los Angeles, i giardini zen a Kyoto, la madre sotto la pioggia nel cimitero accanto alla Bolton Abbey...) e che si intreccia con i ricordi personali...
«Nel 2002 sono andato a visitare la mostra di Picasso e Matisse alla Tate di Londra, con me c’erano Lucian Freud, Frank Auerbach e il curatore John Golding. Bellissima! Quando però siamo usciti ci siamo trovati davanti tre grandi fotografie-manifesto. E mi sono detto, ma credo fosse anche l’opinione dei miei compagni: Picasso e Matisse hanno fatto sembrare il mondo migliore, più bello e più eccitante, ma la fotografia l’ha fatto subito ritornare noioso, opaco».
Un rischio che non corre chi, come lei, usa oggi l’iPad per fare anche arte (lo screensaver del suo iPad, coloratissimo, è già un dipinto)...
«Qui c’è davvero arte, perché con l’iPad posso anche disegnare, una delle cose che so fare meglio, una delle prime cose che ho imparato». Mentre l’arte contemporanea...
«...per molti è diventata ormai solo una professione da fare senza inspirazione». Mentre le grandi mostre, i grandi eventi...
«...sono esposizioni enormi in cui c’è sempre spazio anche per la mediocrità e per i cattivi artisti. E questo può ingannare i visitatori, costringendoli ad accettare come buono e bello tutto ciò che vedono. Meglio, allora, le piccole esposizioni dove il pubblico può sentirsi più vicino. Io, oltretutto, mi sento molto più avanti di certe cose che vengono proposte in alcune maxi-mostre dei giorni nostri». Piccolo meglio che grande, dunque. Un concetto che, per lei, vale anche in materia di religione...
«Nella grandiosità della Basilica di San Pietro Dio è vicino, ma nella bellissima intimità del chiostro di San Carlo alle Quattro Fontane (progettato dal Borromini, uno dei luoghi di Roma più amati da Hockney, ndr) Dio è sicuramente ancora più vicino che in San Pietro». Che cosa la appassiona oggi dell’arte?
«La prospettiva. O meglio: la ricerca di una nuova prospettiva. Vede questi? Sono i bozzetti di cinque dipinti che ho terminato appena un mese fa nel mio studio di Los Angeles e che porterò alla mostra del Beaubourg. Vede che ho tagliato gli angoli? L’ho fatto proprio per allargare la prospettiva, per farla diventare assoluta e universale, più moderna. E non limitata, per quanto perfetta, alla maniera di Brunelleschi o di Leon Battista Alberti. Mi è sembrata una buona idea, ma non è del tutto mia, ho solo messo in pratica le teorie di questo vecchio saggio del 1919 di Pavel Florenski (filosofo, matematico, presbitero russo, scienziato, ingegnere vissuto tra il 1882 e il 1937, ndr): per me lui è come Leonardo. Si chiama La perspective inverse, nessuno lo conosce. Non l’ha letto? Glielo regalo. Vedrà, è dinamite, molto più di certa arte contemporanea. Nel nuovo trittico ho riletto gli affreschi del Beato Angelico nel convento di San Marco a Firenze secondo la “prospettiva inversa”, ne è venuto fuori qualcosa di ancora più universale». Quando ha scoperto Beato Angelico?
«Me ne sono innamorato quando avevo undici anni e ho visto, appeso su un muro della Bradford School dove andavo, una riproduzione dell’Annunciazione. Non me ne sono più liberato».
Lei è anche l’uomo dei ritratti, i famosi «doppi» come quello di Mr. e Mrs. Clark con il loro gatto bianco Percy e quelli di amici e conoscenti, a cominciare da John Baldessari, immortalati nella stessa posa...
«A Venezia, a Ca’ Pesaro, porterò proprio questi 82 ritratti che avrebbero dovuto essere una Commedia uma
na alla maniera di Balzac. Tanti, tantissimi, in qualche modo anche troppi. Ma c’è un trucco per apprezzarli: non guardarli come un unico grande gruppo, ma cercare di capire la storia che c’è dietro ogni singolo personaggio. Ho fatto ogni ritratto in tre giorni al massimo, lavorando sette ore al giorno; per qualcuno, come Larry Gagosian o Frank Gehry, ho dovuto accontentarmi solo di due giorni, perché ognuno di questi personaggi aveva comunque un lavoro, un’occupazione, altro da fare. Ma per me sono stati ritratti importanti, realizzati dopo un periodo difficile. E ancora una volta ho preso ispirazione da uno dei miei modelli, il van Gogh dell’Uomo an
ziano nel dispiacere: la posizione in cui vede Jean-Pierre, il mio assistente che compare nel primo ritratto della