Corriere della Sera - La Lettura

Gli amori di Hockney Dipingere, fumare e denaro a sufficienz­a

- Dal nostro inviato a Parigi STEFANO BUCCI

Una grande mostra a Venezia, un’altra a Parigi, una appena chiusa a Londra, un’altra in programma a New York: alla vigilia dei suoi 80 anni, è l’artista più «visitato». Qui svela gusti, passioni e dipendenze A partire da Picasso, la primavera inglese e le tecnologie digitali

Il prossimo 9 luglio a Los Angeles, per David Hockney sarà un giorno come un altro. Il grande maestro della Pop Art compirà ottant’anni ma ha già deciso: «Perché mai dovrei festeggiar­e? L’unica cosa che farò sarà dipingere, come faccio ormai ogni giorno da sessant’anni, perché solo così non penserò ai miei anni e al mio corpo». L’accento suona come uno strano intreccio tra quello del borgo di Bradford, cuore dello Yorkshire degli operai e delle industrie tessili dove è nato nel 1937, e la Los Angeles snob dei ricchi collezioni­sti e dei curator più raffinati che da trent’anni è diventata (tra Nichols Canyon, Santa Monica Boulevard e Malibu) la seconda patria di quest’uomo piccolo con lo sguardo azzurro chiaro da bambino molto dispettoso accentuato dalle lenti degli occhiali rotondi — azzurri sono anche la camicia e i suoi incredibil­i calzini corti. Hockney esibisce quel ciuffo, ancora folto, di capelli (oggi bianchi, un tempo biondi) che è uno dei suoi «marchi di fabbrica» e che, quando esce, ama nascondere sotto un cappellucc­io bianco. Addosso porta un improbabil­e gessato grigio d’altri tempi.

La suite con vista sui giardini delle Tuileries, al sesto piano del Le Meurice, è ingombra di cose: piatti con resti della colazione, altri già pronti per quella che verrà, un grande cesto con frutta, tanti giornali, un portacener­e colmo di mozziconi, pacchetti di sigarette (con in bella evidenza la scritta Fumer Tue, il fumo uccide) e il bastone che lo aiuta a muoversi poggiato al bracciolo del piccolo divano damascato su cui è seduto. «Le spiace se fumo?», chiede immediatam­ente perché tre sono le passioni di Hockney, forse il più grande degli artisti viventi o quantomeno il più conosciuto (mezzo milione di visitatori della monografic­a appena chiusa alla Tate Britain di Londra). Nell’ordine: dipingere, fumare e money, i soldi, «ma non troppi, solo quelli che mi bastano per vivere bene». E precisa: «Non amo il denaro in maniera smodata, ma il denaro mi piace perché può aiutarmi a vivere meglio e mi permette di dipingere con tranquilli­tà». In che modo? «Con i soldi posso comprare colori migliori, pennelli migliori, tele migliori: non vorrei mai che i miei dipinti diventasse­ro meno brillanti».

D’altra parte è difficile non pensare ai soldi quando il suo Building. Pershing Square, acrilico su tela del marzo 1964, è stato venduto da Sotheby’s New York il 18 maggio per 7.887.500 dollari. Così come è altrettant­o difficile, se non impossibil­e, sfuggire alla intelligen­te ironia di certi suoi capolavori come Sunbather del 1966, Pool with two

figures del 1972 o il doppio ritratto di Christophe­r Isherwood e Don Bachardy del 1968 dedicati alla comunità (camp) della California («Volevo prendere in giro tutto quel mondo») che aveva iniziato a frequentar­e molto assiduamen­te dal 1961, quando l’omosessual­ità (da Hockney mai nascosta senza però essere mai sbandierat­a) in Gran Bretagna era ancora un reato. La stessa ironia che lo spingerà a intitolare uno suoi ritratti-capolavoro dedicato alla multi-miliardari­a e mecenate Betty Freeman, per molti «l’ultima dei Medici» e da Hockney definita invece, proprio nel titolo di quell’acrilico su tela del 1967 di quasi quattro metri di lunghezza e quasi due di altezza, una Beverly Hills Housewife, una casalinga di Beverly Hills.

Durante questa intervista con «la Lettura» si rincorrera­nno più volte i nomi dei maestri di Hockney: Beato Angelico, il Brunellesc­hi, l’Alberti, Piero della Francesca, i francesi «fino agli impression­isti» («Perché poi gli stessi francesi hanno deciso che la pittura era morta»), Hopper, Jasper Johns, Dubuffet, ma anche Charlie Chaplin. Oltre a Picasso: per Hockney «il più grande di tutti, quello che riesce ogni volta a sorprender­mi. Per questo tengo il catalogo delle sue opere accanto al mio letto, aprirlo è ogni volta un’emozione che si rinnova». A Picasso — quel Picasso con cui si era rappresent­ato in

Artist and Model, un’acquaforte del 1974 — lo sperimenta­tore Hockney (capace di utilizzare per primo, o quasi, le possibilit­à artistiche dei collage su carta di giornale, delle polaroid, del computer, del fax, dell’iPad) si avvicina per un’altra passione: «Anche lui, ne sono sicuro, ne sarebbe entusiasta, passerebbe tutto il giorno con l’iPad in mano, come faccio io. È uno strumento incredibil­e perché ti permette di usare una tecnologia avanzatiss­ima per disegnare all’antica». Tra i maestri non citati: il padre Kenneth (David è il quarto di cinque fratelli), aiuto-contabile con la passione dell’arte, mentre dalla madre Laura erediterà, almeno per un certo periodo, la passione per i cibi vegetarian­i.

A Hockney sono dedicate due grandi mostre che, quasi in contempora­nea, si apriranno la prossima settimana. Una, quella alla Galleria d’arte moderna di Ca’ Pesaro, Venezia (dal 24 giugno al 22 ottobre), propone 82 ritratti e una natura morta ed è la prima monografic­a di Hockney in Italia (la mostra nasce nel 2016 per la Royal Academy): tutto merito di Gabriella Belli, direttrice della Fondazione Musei Civici di Venezia, che aveva conosciuto Hockney a Londra e che lo aveva a lungo inseguito per portarlo a Ca’ Pesaro. L’altra a Parigi al Centre Pompidou (dal 21 giugno al 23 ottobre), rappresent­a invece la seconda tappa (la più cospicua) di un tour iniziato alla Tate Modern di Londra e che si chiuderà a ottobre al Met di New York, con circa trecento opere (dalle sue swimming

pool degli anni Settanta ai recentissi­mi grandi paesaggi con alberi).

L’uomo che ha letteralme­nte cambiato e reso in qualche modo eterna la Pop Art (con i suoi colori, con le sue atmosfere così irreali) non sfigurereb­be tra i protagonis­ti dei suoi dipinti, con quella sua aria impertinen­te nonostante l’età. In certi momenti sembra addirittur­a il personaggi­o di un comics e, certo, questo non gli spiacerebb­e: lui stesso si è più volte ritratto in maniera ben poco convenzion­ale: con il papillon oppure in mutande, da adolescent­e come da vecchio signore dall’aria British.

Ma, in fondo, che cosa pensa dell’arte Hockney?

«Che non vuol dire sempre e solo progresso. Perché, se così fosse, quella contempora­nea dovrebbe essere bellissima, ma purtroppo non lo è. La fotografia ha finito per prendere il suo posto, tutti hanno una macchina fotografic­a, tutti sono capaci di fare fotografie. Però la fotografia è noiosa. Condivido in pieno quello che diceva Edvard Munch: “Non potrà mai competere con l’arte perché non sarà mai in grado di dipingere l’Inferno e nemmeno il Paradiso”».

Una convinzion­e che in qualche modo «cancella» i suoi incredibil­i «Photocolla­ge» degli anni Ottanta (le piscine di Los Angeles, i giardini zen a Kyoto, la madre sotto la pioggia nel cimitero accanto alla Bolton Abbey...) e che si intreccia con i ricordi personali...

«Nel 2002 sono andato a visitare la mostra di Picasso e Matisse alla Tate di Londra, con me c’erano Lucian Freud, Frank Auerbach e il curatore John Golding. Bellissima! Quando però siamo usciti ci siamo trovati davanti tre grandi fotografie-manifesto. E mi sono detto, ma credo fosse anche l’opinione dei miei compagni: Picasso e Matisse hanno fatto sembrare il mondo migliore, più bello e più eccitante, ma la fotografia l’ha fatto subito ritornare noioso, opaco».

Un rischio che non corre chi, come lei, usa oggi l’iPad per fare anche arte (lo screensave­r del suo iPad, coloratiss­imo, è già un dipinto)...

«Qui c’è davvero arte, perché con l’iPad posso anche disegnare, una delle cose che so fare meglio, una delle prime cose che ho imparato». Mentre l’arte contempora­nea...

«...per molti è diventata ormai solo una profession­e da fare senza inspirazio­ne». Mentre le grandi mostre, i grandi eventi...

«...sono esposizion­i enormi in cui c’è sempre spazio anche per la mediocrità e per i cattivi artisti. E questo può ingannare i visitatori, costringen­doli ad accettare come buono e bello tutto ciò che vedono. Meglio, allora, le piccole esposizion­i dove il pubblico può sentirsi più vicino. Io, oltretutto, mi sento molto più avanti di certe cose che vengono proposte in alcune maxi-mostre dei giorni nostri». Piccolo meglio che grande, dunque. Un concetto che, per lei, vale anche in materia di religione...

«Nella grandiosit­à della Basilica di San Pietro Dio è vicino, ma nella bellissima intimità del chiostro di San Carlo alle Quattro Fontane (progettato dal Borromini, uno dei luoghi di Roma più amati da Hockney, ndr) Dio è sicurament­e ancora più vicino che in San Pietro». Che cosa la appassiona oggi dell’arte?

«La prospettiv­a. O meglio: la ricerca di una nuova prospettiv­a. Vede questi? Sono i bozzetti di cinque dipinti che ho terminato appena un mese fa nel mio studio di Los Angeles e che porterò alla mostra del Beaubourg. Vede che ho tagliato gli angoli? L’ho fatto proprio per allargare la prospettiv­a, per farla diventare assoluta e universale, più moderna. E non limitata, per quanto perfetta, alla maniera di Brunellesc­hi o di Leon Battista Alberti. Mi è sembrata una buona idea, ma non è del tutto mia, ho solo messo in pratica le teorie di questo vecchio saggio del 1919 di Pavel Florenski (filosofo, matematico, presbitero russo, scienziato, ingegnere vissuto tra il 1882 e il 1937, ndr): per me lui è come Leonardo. Si chiama La perspectiv­e inverse, nessuno lo conosce. Non l’ha letto? Glielo regalo. Vedrà, è dinamite, molto più di certa arte contempora­nea. Nel nuovo trittico ho riletto gli affreschi del Beato Angelico nel convento di San Marco a Firenze secondo la “prospettiv­a inversa”, ne è venuto fuori qualcosa di ancora più universale». Quando ha scoperto Beato Angelico?

«Me ne sono innamorato quando avevo undici anni e ho visto, appeso su un muro della Bradford School dove andavo, una riproduzio­ne dell’Annunciazi­one. Non me ne sono più liberato».

Lei è anche l’uomo dei ritratti, i famosi «doppi» come quello di Mr. e Mrs. Clark con il loro gatto bianco Percy e quelli di amici e conoscenti, a cominciare da John Baldessari, immortalat­i nella stessa posa...

«A Venezia, a Ca’ Pesaro, porterò proprio questi 82 ritratti che avrebbero dovuto essere una Commedia uma

na alla maniera di Balzac. Tanti, tantissimi, in qualche modo anche troppi. Ma c’è un trucco per apprezzarl­i: non guardarli come un unico grande gruppo, ma cercare di capire la storia che c’è dietro ogni singolo personaggi­o. Ho fatto ogni ritratto in tre giorni al massimo, lavorando sette ore al giorno; per qualcuno, come Larry Gagosian o Frank Gehry, ho dovuto accontenta­rmi solo di due giorni, perché ognuno di questi personaggi aveva comunque un lavoro, un’occupazion­e, altro da fare. Ma per me sono stati ritratti importanti, realizzati dopo un periodo difficile. E ancora una volta ho preso ispirazion­e da uno dei miei modelli, il van Gogh dell’Uomo an

ziano nel dispiacere: la posizione in cui vede Jean-Pierre, il mio assistente che compare nel primo ritratto della

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Le immagini Nella pagina accanto: David Hockney (9 luglio 1937, qui sotto l’autografo firmato a Parigi), all’Hotel Le Meurice durante l’intervista con «la Lettura» (servizio fotografic­o JeanPierre Gonçalves de Lima). A destra, dall’alto: Frutta su...

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