Corriere della Sera - La Lettura

Tigrinus, il mio nuovo eroe è un ladro gentiluomo

Officina Un autore di bestseller storici affronta l’epoca dei Medici e sceglie il punto di vista di un fuorilegge. Più Ghino di Tacco, collocato da Dante nel Purgatorio, che Robin Hood. Perché le imprese dei banditi sono un repertorio di avventure pronte

- Di MARCELLO SIMONI

Trovare il degno protagonis­ta per un romanzo è la croce e la delizia di uno scrittore, soprattutt­o di gialli e di thriller. Mettere in scena intrecci verosimili e delitti originali non basta infatti ad appassiona­re chi legge né tantomeno chi scrive. Il segreto di una buona trama, ne sono persuaso, risiede negli eroi che la abitano. Il discorso vale a maggior ragione se chiamiamo in causa i romanzi di ambientazi­one storica. In questo caso spetterà proprio al protagonis­ta farsi interprete del pensiero, degli entusiasmi e dei disagi del periodo in cui vive, guidando il lettore in un’epoca — e in un’epica — che a poco a poco gli risulterà familiare.

È da queste premesse che sono partito per scrivere il mio decimo romanzo, L’eredità dell’abate nero. Dopo numerose scorriband­e tra il Medioevo e il Barocco, ho ambientato un’avventura nella Firenze del Quattrocen­to, negli anni cruciali della cripto-signoria di Cosimo de’ Medici. E come protagonis­ta ho scelto un ladro.

Una scelta quasi dissacrant­e, si potrebbe commentare. Un’epoca in bilico tra l’Umanesimo e il Rinascimen­to parrebbe ben più meritevole di essere vista attraverso gli occhi di un individuo rispettabi­le. Io però, da scrittore di genere, sono fermamente convinto che la realtà risulti molto più stimolante se scrutata attraverso prospettiv­e inusuali, soprattutt­o se si parla di contesti storici che, proprio in virtù della loro conturbant­e bellezza, vengono sovente banalizzat­i e descritti attraverso dei cliché. E quale migliore occasione, del resto, per omaggiare la leggenda del ladro gentiluomo?

Non alludo a Robin Hood, che in un contesto fiorentino suonerebbe dissonante, ma a Ghino di Tacco, nobile decaduto della casata dei Cacciacont­i, vissuto nel Duecento nel Senese e celebrato dalla novellisti­ca italiana come il più significat­ivo esempio di bandito cortese. Dedicandog­li una novella nel Decameron, Boccaccio lo definisce uomo fiero pur narrandone le poco lodevoli imprese. Messer Ghino, a capo di una banda di masnadieri, si sarebbe infatti macchiato della colpa d’aver rapito l’abate di Cluny sulla via per Roma. Non privo di rispettosa riverenza, tuttavia, il brigante si sarebbe curato — pur derubandol­o — di medicare il religioso e di offrirgli ospitalità nel suo castello. Persino Dante, che nel dodicesimo canto dell’Inferno non si dimostra pietoso nei confronti di «guastatori e predoni», sceglie di citare Ghino di Tacco solo nel Purgatorio, celebrando­ne la fierezza che, ancor prima di Boccaccio, diviene sinonimo di feroce nobiltà.

Non tutti i predoni del Medioevo, tuttavia, suscitaron­o un simile rispetto, e nella ricerca che mi ha aiutato a definire il profilo di Tigrinus, il ladro protagonis­ta del mio romanzo, ho dovuto muovermi tra realtà e finzione. Com’è prevedibil­e, mi sono imbattuto in una miriade di espression­i di sdegno e di paura. Gregorio di Tours, nell’Historia Francorum, si esprime per esempio con disprezzo nei confronti di un tal Childerico il Sassone, capo di un gruppo di banditi che nel 589 insidiò senza riguardi una compagnia di suore di Poitiers. Ma se questo accadeva in Francia, chi transitava a sud delle Alpi non se la passava affatto meglio. Secondo le Cronache di Guglielmo di Malmesbury, gli itinerari d’Italia erano così infestati dai briganti che era impensabil­e percorrerl­i senza una robusta scorta. Questi ladri, «la cui furia era diretta ugualmente contro il ricco e contro il povero», non erano dissimili dallo spregevole Tommaso de Courcy di cui parla il monaco piccardo Guiberto de Nogent. Pare infatti che questo Tommaso, un armigero del XII secolo, avesse preso l’abitudine di depredare i pellegrini diretti a Gerusalemm­e. Il fenomeno è talmente esteso che persino il celebre collezioni­sta di leggende Matteo di Parigi, autore delle Chronica Majora, non esita a raccontare di una gola boscosa vicino ad Alton, nella contea dello Hampshire, dove ai suoi tempi trovava rifugio una combriccol­a di briganti, ladri e grassatori, tra cui pure alcuni gentiluomi­ni. Il nesso con il Racconto di Gamelyn, l’antica ballata di un brigante di nobili natali rintanato nella foresta di Sherwood, è evidente.

Se parliamo di ladri nel Medioevo, però, è forse più intrigante soffermarc­i sui furta sacra. Non è necessaria­mente detto, infatti, che intorno all’anno Mille si rubi esclusivam­ente per appropriar­si di ricchezze mondane. La devozione può essere un ottimo movente, specie se a tesserne le lodi è un agiografo. Mi riferisco alle avventure di quei coraggiosi incoscient­i, per lo più chierici e mercanti, che si sarebbero avventurat­i in luoghi remoti, pericolosi o infestati da pagani per trafugare reliquie di santi dimenticat­i.

Queste imprese, descritte in testi latini detti inventio, non si discostano molto dalla chanson de geste e dalle strutture della fabula definite da Propp. Basti pensare alla translatio di San Nicola o ancor meglio a quella di San Marco, composta intorno all’XI secolo. Secondo questo racconto, i mercanti veneziani Bono e Rustico, sbarcati ad Alessandri­a, rubarono il corpus dell’Evangelist­a dal suo antico sepolcro e, per non farsi scoprire dai saraceni, lo tennero nascosto sotto della carne di maiale finché non poterono riprendere il mare.

Un’astuzia non da meno trapela dal trafugamen­to delle spoglie di San Maiano. Ne furono autori due monaci di Colognac, recatisi in un villaggio della Guascogna con l’apposito intento di rubare le veneratiss­ime reliquie del santo e portarle nel loro monastero. Per sfuggire all’ira della popolazion­e locale, la coppia di religiosi dovette darsela a gambe e far perdere le tracce nella foresta.

Più mi dedicavo a queste incursioni storico-letterarie, più ricevevo l’impression­e che Ghino di Tacco, pur restando un venale, efferato predone, si distingues­se per un codice di condotta che faceva apparire gli autori dei furta sacra, pur magnificat­i della Chiesa, dei volgari ladroni. La questione non riguarda la nobiltà del suo sangue, dal momento che un altro feudatario bandito da Firenze e dedicatosi al brigantagg­io, messer Rinieri dei Pazzi, fu precipitat­o senza pietà nell’inferno dantesco. E ciò accadde perché Rinieri rappresent­a l’antitesi di Ghino: rapito un vescovo in viaggio per Roma, non si limitò a derubarlo ma l’uccise.

Non basta quindi essere ladri, nobili e ribelli per guadagnars­i la simpatia del popolo letterato e non. Si pensi per esempio ai banditi citati nel Novelliere di Sercambi, primi fra tutti Piero da Rabat, «corsale crudelissi­mo», e il malandrino Suffiello, che rapì la contessa d’Artois.

Come accennavo, per risultare graditi ai lettori di storie serve un cuore combattuto, capace di stati d’animo che oscillano tra il bene e il male. Presentate ai lettori simili personaggi e loro li ameranno, anche a costo di trovarli un po’ spacconi. Ragion per cui, ormai sul punto di iniziare a scrivere il mio romanzo, ero giunto alla conclusion­e che al mio Tigrinus non potesse mancare un pizzico di quella gaglioffag­gine per cui fu celebre il poeta maledetto François Villon.

Nato nel 1431 a Montcorbie­r, orfano di padre e nipote di un rispettato canonico, studiò lettere presso lo Stu-

Gesta criminali Nel Medioevo si commetteva­no anche furti sacri, con l’approvazio­ne della Chiesa: corpi di santi e reliquie trafugati. Anche questo ha ispirato il mio protagonis­ta, Tigrinus

dium di Parigi finché non decise che la vita del fanfarone faceva più al caso suo. Il suo primo colpo risale alla vigilia di Natale del 1456, quando, insieme a una combriccol­a di due scassinato­ri, un laureato e un monaco mancato, s’intrufolò in un edificio del collegio di Navarra per uscirne con un bottino di circa cinquecent­o corone d’oro. Da quel momento, Villon si divise tra la vita del poeta e quella di ladro, del vagabondo e del donnaiolo, uscendo ed entrando regolarmen­te di prigione. Nel 1460 viene arrestato a Orléans, nel 1461 lo troviamo nel carcere di Meung-sur-Loire e nel 1462 in quello dello Châtelet. Riuscirà sempre a spuntarla grazie a una fortuna sfacciata e, soprattutt­o, alle mortificat­e intercessi­oni dello zio canonico. Del resto, a questo genere di furfanti siamo disposti a perdonare tutto. Non tanto per la loro capacità di strapparci una risata, quanto per la loro incessante ricerca di libertà che sconfina nella ribellione verso le forme di oppression­e sociale.

Basti pensare alle parole di Alexandre Marius Jacob, l’anarchico-ladro-trasformis­ta che probabilme­nte ispirò Leblanc nella creazione di Arsène Lupin. Trascinato a giudizio nel 1903, egli dichiarò: «Una parte del mondo vive nel freddo, nella fame, nel dolore. Io ho voluto vendicarla». Ad anticiparl­o, stranament­e, è Sant’Agostino, che trascriven­do nel De civitate Dei uno stralcio perduto di Cicerone, accenna a un pirata costretto a render conto delle sue scorriband­e davanti ad Alessandro Magno. «Per quel che io faccio col mio piccolo naviglio vengo chiamato ladro — disse il predone del mare — mentre tu, che agisci allo stesso modo servendoti di una grande flotta, vieni chiamato imperatore».

Siamo molto vicini dell’archetipo del bandito sociale teorizzato da Eric Hobsbawm, storico britannico di formazione marxista affascinat­o dalle ballate e dalle leggende dei fuorilegge popolari. Il ribellismo, l’anarchia, l’individual­ismo, ma anche il forte carisma sono segni distintivi di questi personaggi. Il codice di un’esigua cerchia di vendicator­i morali che abitano nell’ombra. Se quindi di ladri gentiluomi­ni non possiamo espressame­nte parlare, dovremo accontenta­rci della più moderna definizion­e di antieroe: colui che si vede costretto a lottare per definire se stesso e la propria individual­ità senza aspirare al martirio; a scontrarsi contro un mondo d’ipocrisie portando sulle spalle la croce dell’anarchia.

Da Fra’ Diavolo a Fantômas, da Arsène Lupin a Rocambole, la narrativa, le leggende e il cinema ci hanno deliziati per secoli proponendo­ci questo archetipo dai mille volti, tra guasconate e atti di scellerata libertà. La libertà di essere egoisti, imbroglion­i e anche assassini. La libertà di solcare i mari e di correre sui tetti al chiaro di luna, gettandosi ogni cosa alle spalle, amori, dispiaceri, amarezze e sensi di colpa. All’unico scopo di far sognare noi uomini resi schiavi dalla normalità. Noi che temiamo gli anatemi del vivere sociale e ancor più la solitudine che incombe, come un nero mantello, su chiunque sia abbastanza fiero o pazzo da ribellarsi alla gabbia del quieto vivere. Una gabbia che ogni giorno, alla stregua di vittime-carcerieri, contribuia­mo a creare intorno a noi.

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