Corriere della Sera - La Lettura

Il terzo ramo del Parlamento

- Di SERGIO ROMANO

Dopo la morte nel febbraio 2016 di Antonin Scalia, un giudice conservato­re della Corte Suprema americana, il presidente Barack Obama cercò di nominare il successore e si scontrò con la resistenza del Senato a cui spetta il compito di ratificare, in questa materia, le scelte presidenzi­ali. Il problema era strettamen­te politico. La morte di Scalia lasciava una Corte composta da quattro senatori di nomina repubblica­na e quattro di nomina democratic­a. Se Obama fosse riuscito a nominare un quinto giudice democratic­o, sarebbe stato più facile adottare le riforme liberali a cui Scalia si era opposto nel corso della sua carriera. Ma la maggioranz­a repubblica­na del Senato ha preferito attendere le elezioni del novembre 2016 e la scelta è finita quindi nelle mani di Donald Trump che ha nominato Neil Gorsuch, sino ad allora giudice di una Corte d’appello federale.

Sembra che la scelta di Gorsuch, fra quelle fatte da Trump nei primi mesi della sua presidenza, sia stata una delle più equilibrat­e. Nel breve discorso pronunciat­o in occasione della sua nomina, Gorsuch ha dichiarato che si sottoporrà diligentem­ente all’indagine del Senato e che tocca al Congresso, non alle Corti, scrivere nuove leggi.

Sino a dodici anni fa, in Gran Bretagna, le sentenze, nelle grandi questioni istituzion­ali, venivano pronunciat­e, come in altre monarchie del passato, da un Comitato d’appello della Camera Alta. Ma una legge costituzio­nale del 2005 ha creato una Corte Suprema che negli scorsi mesi ha impedito al governo di Theresa May di avviare le procedure per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea senza prima avere sottoposto la questione al Parlamento di Westminste­r.

In Germania, una delle maggiori preoccupaz­ioni del Tribunale costituzio­nale di Karlsruhe è di evitare che il governo federale prenda decisioni, soprattutt­o sui trasferime­nti di sovranità all’Unione Europea, senza avere prima interpella­to il Bundestag.

In Francia il generale de Gaulle e il suo maggiore consiglier­e in questa materia (Mi- chel Debré) non vollero che la Costituzio­ne della Quinta Repubblica prevedesse una Corte Costituzio­nale. Ritenevano che il potere dovesse essere esercitato senza interferen­ze giudiziari­e da due istituzion­i elettive: l’Assemblea Nazione e il presidente della Repubblica. Per le questioni costituzio­nali fu creato un Conseil Costitutio­nnel che produce decisioni, quando è interpella­to, non sentenze. Dal 2008, grazie a una riforma voluta da Nicolas Sarkozy, il Consiglio Costituzio­nale può intervenir­e, su richiesta del Consiglio di Stato o della Corte di Cassazione, ogniqualvo­lta una legge, già entrata in vigore, è accusata di minacciare i diritti e le libertà garantiti dalla Costituzio­ne.

In Italia la situazione sembra essere alquanto diversa. Mentre nella maggior parte delle grandi democrazie occidental­i i giudici costituzio­nali rispettano e tutelano l’autorità del Parlamento, la Suprema Corte italiana corregge e in effetti riscrive le leggi elettorali. È accaduto nel dicembre 2014 quando la Corte ha definito «distorsivo» il premio di maggioranz­a previsto dal «Porcellum» (la legge elettorale del dicembre 2005). È accaduto nel gennaio 2017 quando la Corte ha bocciato il ballottagg­io previsto dal cosiddetto «Italicum» (la legge approvata nel maggio 2015 per la Camera dei deputati) e ha modificato il meccanismo delle pluri-candidatur­e che permetteva ai capilista di presentars­i in più di un collegio e scegliere successiva­mente dove essere eletti. Nel suo comunicato la Corte ha respinto le eccezioni di inammissib­ilità proposte dall’Avvo- catura generale dello Stato; e ha inoltre ritenuto «inammissib­ile la richiesta delle parti di sollevare di fronte a se stessa la questione sulla costituzio­nalità del procedimen­to di formazione della legge elettorale».

La partita è chiusa. D’ora in poi sarà opportuno che una legge elettorale, prima di essere definitiva­mente approvata dal Parlamento, venga letta e approvata dalla Consulta.

Questo non sarebbe accaduto, probabilme­nte, se la graduale ascesa del potere giudiziari­o non avesse subito un brusco colpo di accelerato­re quando la classe politica nazionale si arrese al potere dilagante della magistratu­ra inquirente negli anni di Tangentopo­li e permise ai procurator­i della Repubblica di impedire con i loro veti qualsiasi riforma dell’ordine giudiziari­o. Ne conosciamo le ragioni. Gli avversari di Berlusconi credettero di potere usare la magistratu­ra per sbarazzars­i di un concorrent­e e lasciarono alla giustizia il compito di fare quella che era (e sarebbe dovuta restare) una battaglia politica. Non capirono che chi delega ad altri le proprie prerogativ­e è condannato a perderle. Il potere assunto ora dalla Corte costituzio­nale è il risultato di quella rinuncia.

L’errore mi sembra particolar­mente grave per la sinistra di origine comunista. Gli eredi di Togliatti (negli anni di Tangentopo­li erano ancora numerosi) avrebbero dovuto ricordare un discorso che il segretario del Partito comunista italiano fece all’Assemblea Costituent­e l’11 marzo 1947. Definì la Corte costituzio­nale, allora in discussion­e, una «bizzarria» e ne parlò come di un «organo che non si sa che cosa sia e grazie alla istituzion­e del quale degli illustri cittadini verrebbero a essere collocati al di sopra di tutte le assemblee e di tutto il sistema del parlamento e della democrazia, per essere giudici. Ma chi sono costoro? Da che parte trarrebber­o essi il loro potere se il popolo non è chiamato a sceglierli?».

Forse Togliatti esagerava. La Corte ha reso al Paese grandi servizi ma le leggi elettorali si devono fare in Parlamento, non alla Consulta.

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