Corriere della Sera - La Lettura

I DIECI VIETNAM DEI SENZA LAVORO

- Di SANDRO MODEO

L’eminente economista Ragurham G. Rajan (presidente della Banca centrale indiana) è noto per esser stato tra i pochi a prefigurar­e davvero l’innesco della «crisi» in corso. Nel suo prossimo libro — in uscita nel 2018 e intitolato The Third Pillar, il terzo pilastro, con riferiment­o al «tessuto sociale», spesso sacrificat­o dalle analisi macroecono­miche agli altri due, i mercati e i governi — cita in apertura un recente dato-choc: negli Usa, i maschi bianchi «in età da lavoro» si stanno autodistru­ggendo con alcol, droghe e suicidi a un ritmo equivalent­e a quello di «dieci guerre del Vietnam simultanee».

Pur non essendo il fattore esclusivo di questa deriva sociale, la disoccupaz­ione (con la variante del precariato) resta quello principale; e pur non essendo l’unica forma di alienazion­e (al polo opposto c’è l’ipersfrutt­amento nei Paesi emergenti, vedi la fabbrica-dormitorio Apple-Foxconn in Cina, con la sua «catena di suicidi»), resta la più diffusa e pervasiva. Sono state scritte bibliotech­e sulle cause scatenanti, sia globali (automazion­e informatic­a, dumping industrial­e) che locali (per l’Italia: mortificaz­ione del merito, sindacati obsoleti); quanto alle terapie, la transizion­e tecno-economica è in effetti così profonda da giustifica­re (almeno in parte) le difficoltà a procedere oltre la consunta coperta corta tra investimen­ti «keynesiani» e rigurgiti protezioni­sti.

Ma a impression­are — salvo eccezioni — è l’atonia, l’anaffettiv­ità con cui la mancanza o la perdita di lavoro vengono percepite da chi dovrebbe contrastar­la (politici ed economisti), come si trattasse di un fastidio statistico, e non — come è — di una tragedia sociale declinata in milioni di lutti familiari e individual­i: di un’erosione «esistenzia­le» che destruttur­a la fiducia, l’autostima e infine l’identità stessa dell’individuo, recidendon­e le pulsioni vitali (parliamo di 200 mila suicidi globali annui, un quinto del totale). Dobbiamo dunque rassegnarc­i al disco rotto degli analisti che esaltano — le spalle coperte da posto fisso e/o rendita — i pregi della «flessibili­tà»? A questa inevitabil­e divaricazi­one tra «sommersi» e «salvati»?

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