Corriere della Sera - La Lettura
Il dei giudici e l’innocenza disarmata
Il senso del passato furore
Di non tante «colonne» erette a marcare un’«infamia» — e una di esse a sua volta manzoniana, essendo stata alzata a Monza, nel febbraio 1608, sopra le rovine della casa dell’«infame» Gio. Paolo Osio, l’Egidio dei Promessi sposi — di certo la milanese è non solo la più famosa, ma la più esemplare; proprio grazie a Manzoni, che l’ha riletta non come segno dell’infamia degli untori, bensì del «furore potente dei giudici contro l’innocenza disarmata» dei condannati. Sottolineandolo anche visivamente, ponendo l’illustrazione della felice famiglia Tramaglino che siglava I promessi sposi a fronte della casa abbattuta della famiglia Mora, ad apertura della Storia della colonna infame.
Quanto alla Colonna Infame «alzata su l’angolo destro della via della Vetra, e del corso di Porta Ticinese», la motivazione la si legge nella traduzione che Manzoni fa della sentenza contro Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora, dopo i particolari dell’esecuzione: «La casa del Mora sia spianata, e sullo spazio eretta una colonna che abbia nome di infame, e porti una iscrizione del fatto: né ad alcuno in perpetuo, sia concesso di fabbricarvi la casa».
Che è quanto accade: con l’iscrizione, murata in una casa vicina, che continuerà a restarvi anche dopo l’abbattimento della colonna la notte tra il 24 e il 25 agosto 1778, anche se il testimone oculare Porati si limita a dire che «la colonna è caduta: si ruppe in due pezzi perché nel cadere andò sopra una delle colonnette che sostenevano la sbarra che circondava il locale; si staccò la palla che stava sul capitello della colonna la quale andò rotolando giù per la contrada detta Vicolo dei vetraschi». Il tutto senza che a 150 anni di distanza avessero ricevuto un qualche risarcimento i proprietari della casa che il Mora abitava in affitto.
Quanto all’iscrizione, «fatta logora dal tempo, era diventata difficile da essere letta, ed essendo in sasso ruvido inserita in muro parimenti oscuro perché non mai imbiancato, non era molto patente», sicché nel 1803, in seguito a ristrutturazioni, passa a un privato, quindi al Museo Patrio di Archeologia, e infine al Castello Sforzesco. Iscrizione priva però di tre firme che in origine sottoscrivevano la sentenza: perché probabilmente qualche discendente del Presidente della Sanità Marcantonio Monti, o di Gio. Battista Trotti Presidente del Senato o del Capitano di Giustizia Gio. Battista Visconti, «a disagio per sé e per la memoria dell’antenato, pensò bene di compiere (anche lui alla chetichella) un’operazione di censura: fece segare via tutta la fascia inferiore della lapide».