Corriere della Sera - La Lettura
Sono io Balzac, il vero Balzac
Maestri «Albert Savarus», tradotto per la prima volta in italiano, è l’esempio più clamoroso di un mutamento nell’interpretazione dell’opera del padre della «Comédie Humaine» e di Zola. Poco a poco un’abitudine che risale addirittura a Edmondo De Amicis e
Prima di parlare di Albert Savarus è giusto osservare come stia cambiando la nostra idea di Balzac e di Zola. Lo si deve allo straordinario impegno di Pierluigi Pellini, ai suoi Meridiani dedicati a Zola, al suo lavoro per Sellerio su Balzac. Poco a poco un’abitudine remota, che risale addirittura a Edmondo De Amicis e a Benedetto Croce, quella di pensare i due grandi romanzieri come campioni del realismo-naturalismo, si sta infine sgretolando. Davvero e compiutamente realistici-naturalisti non lo sono né Balzac — il cui campo di esperienza si apre fino all’esoterismo e al misticismo (per semplificare) — né Zola, la cui maniacalità di studio e di analisi gli chiude l’occhio come fosse uno scienziato che filtra attraverso il microscopio.
D’altra parte (ma è un’osservazione a margine) in un precedente articolo dedicato proprio a Il denaro di Zola, osservavo come nella nostra percezione letteraria sia oggi decisiva l’influenza della Normale di Pisa, dei normalisti. Sempre volendo semplificare, come non accorgersi che la lezione di Federico Orlando è solo un ricordo ed è ormai dominante una tendenza all’interpretazione di tipo contenutistico se non sociologico? Viene voglia di dire, non per nulla stiamo parlando di Balzac e di Zola, sebbene rinnovati! Del mutamento, Albert Savarus di Balzac, finora mai tradotto in italiano, è un esempio clamoroso. Più per la seconda ragione che per la prima. La prima è fin troppo vistosa per non essere almeno in parte casuale. Mi riferisco al romanzo contenuto nel romanzo (o al racconto contenuto in quello che forse è più un racconto lungo che un romanzo) e alle lettere che la protagonista Rosalie legge di nascosto, lettere che hanno una forma anche diaristica, con tanto di date (nel racconto troviamo dunque un’altra forma letteraria digressiva). La seconda ragione è nella natura autobiografica della narrazione. Essa è ben camuffata, come è ragionevole immaginare. Ma è più vicina alla realtà della vita dell’autore di quanto non fosse, per citarne un altro romanzo, anch’esso nella traduzione di Paola Dècina Lombardi appena pubblicato da L’Orma, Louis Lambert, che di Balzac mette a nudo in modo diretto l’anima, la sua vocazione autodistruttiva, l’impossibilità della sua lotta con le strutture repressive del mondo in cui visse.
Tutto ciò lo svela nelle sue strabilianti duecentouno note Pellini, così capillari da superare il mero livello denotativo. Esse sono già commento e interpretazione. Inducono (o invitano) a leggere Albert Savarus due volte: prima per capire, poi per ammirare.
Il romanzo si apre nel modo classico di Balzac, descrizione di ambiente e di personaggio o personaggi. Siamo a Besançon, una città di provincia la più lontana da qualunque volontà o possibilità di Progresso (la P è maiuscola). Vi dimora la famiglia Watterville. Il barone è «asciutto, magro come un chiodo e senza spirito»; la moglie di una «magrezza divenuta proverbiale», quasi che «il barone si fosse consumato contro questa roccia». La figlia Rosalie, vera protagonista della vicenda, «non sapeva assolutamente niente», repressa com’era dal bigottismo della madre e dalla non appartenenza del padre — che pure l’amava fino a farsene, al momento opportuno, schiavo. Di fronte a questa famiglia benestante ma non ricchissima si presenta il vanitoso e pretenzioso Amédée de Soulas, «l’uomo più bello di Besançon» («un parrucchiere veniva a pettinarlo sempre alla stessa ora» ecc.). Naturalmente de Soulas vuole sposare la giovane Rosalie ed è sempre lì, in casa Watterville. Ma a Besançon arriva niente meno che da Parigi un avvocato, Albert Savaron de Savarus. Chi è costui? e perché ha lasciato Parigi per rintanarsi in un citta di provincia come Besançon? Mistero.
Ecco, questa parola quasi mi costringe a pensare al romanzo con categorie interpretative di un grande del passato, Ernst R. Curtius. Il suo Balzac risale al 1923 e offre, anch’esso, una lettura tutt’altro che realistica. Il libro si divide in quattordici capitoli, il primo dei quali si intitola proprio «Mistero». Ma altrettanto cruciali sono «Energia» e «Passione», dove energia sta per Desiderio e passione non è che l’antefatto di «Amore» (il titolo di un altro capitolo) o di «Potere», il cui antefatto in Albert Savarus viene denominato «Ambizione» nel titolo stesso del racconto nel racconto: «Ambizione per amore». Ne è dominato Rodolphe, un ventenne che in vacanza in Svizzera ha la ventura di imbattersi nella diciannovenne Fanny Lovelace, un nome che subito evoca il romanzo gotico-romantico per antonomasia di Samuel Richardson, Clarissa. Ma Lovelace non è che un nome di copertura, la ragazza è un’italiana proscritta, si chiama Francesca — e poi si saprà Francesca Colonna, sposata a un Gandolphini, un uomo di settantasette anni, al quale, avendolo dovuto sposare, ha comunque prestato giuramento di fedeltà. Tutto ciò deve essere prima o poi detto, poiché il «desiderio» di lei in Rodolphe è improvviso e incontenibile: avrebbe voluto sposarla all’istante. Francesca lo ricambia ma il marito sa che «al di fuori del mio cuore, che mi appartiene, e che posso donare, non permetterei a nessuno di prendermi neanche la mano, ed ecco perché ve l’ho appena rifiutata. Voglio essere amata, attesa con fedeltà, nobiltà, ardore, ma tutto ciò che posso offrire è un’infinita tenerezza, la cui manifestazione non oltrepasserà mai il recinto del cuore, non andrà mai oltre il lecito». Rodolphe risponde (ed è serio e sincero, come a suo modo lo fu Balzac nei confronti della polacca baronessa Hanska, che avrebbe sposato, infine vedova, nel 1850 pochi mesi prima di morire e dopo anni e anni di un’attesa che si risolse in promessa mantenuta a dispetto della lontananza e del non essersi incontrati che una volta o due), Rodolphe, dicevo, risponde che Francesca la riceverà «dalle mani del Tempo» — mentre lei, italiana e dunque più generosa di qualunque donna francese chiederà che l’amato coltivi la sua ambizione e diventi ciò che deve diventare «più per il benessere dell’umanità che per meritare me».
Ma il vero romanzo di Balzac comincia qui, quando finisce il racconto di Albert che volle nominarsi Rodolphe: quando cioè finisce l’ambizione per amore e comincia la storia dell’amore che prima d’essere amore è Passione. È la storia di Rosalie: lei fino a quel momento incontaminata da sentimento o pensiero «per la prima volta in vita sua, incontrava quello straordinario, quel meraviglioso che sorride a tutte le giovani immaginazioni». Lo guardava, Albert: lo guardava da lontano. Chi mai era quell’uomo solitario e misterioso? Era arrivato, aveva vinto una causa del Capitolo contro la Municipalità, vale a dire del vecchio potere ecclesiastico contro il nuovo potere scaturito dalla rivoluzione del luglio 1830. Non riceveva che tra le sei e le otto del mattino. Passava la notte a studiare. Perorava, per la fama im-
provvisa che s’era fatta, «due o tre cause a settimana« (era insomma Balzac, osserviamo noi, travestito da avvocato).
Ma come arrivare a Balzac, cioè ad Albert Savarus? È a questo punto che quella fanciulla, Rosalie, che non sapeva niente, si trasforma — come in una fiaba: non già in una fata ma in una strega, o in una specie di strega. Parla, seduce e corrompe. Compie un’azione che verrà poi giudicata tra le più infami. Si fa passare da Jérôme e Mariette, i camerieri, le lettere che Albert va scrivendo: egli all’amico Leopold racconta com’è la sua vita, la sua giornata. Alla duchessa d’Argaiolo in Soderini (questi i veri nomi di Francesca, ripresi dal giorno dell’amnistia e dal ritorno in Italia) racconta com’è il suo amore, quali sono le sue speranze, quale il suo desiderio — perfino che il marito scompaia il prima possibile dalla scena del mondo. Sono sentimenti estremi, puro romanticismo — ma anche, lo abbiamo intravisto, pura realtà — la realtà di Balzac.
Di fronte a tanto come reagisce Rosalie se non con pari rigore? Rosalie organizza un piano che in realtà scaturisce da sé, dalle circostanze che di volta in volta si presentano. Prima convince il padre ad assumere Savarus come avvocato per una contesa su una proprietà terriera. Poi scrive una lettera anonima per impedire l’elezione di Albert alla camera dei deputati. Alla notizia della morte del duca d’Argaiolo (notizia proveniente da due lettere di Francesca ad Albert) Rosalie risponde con tre lettere alla stessa Francesca. Dopo strenui esercizi è arrivata a imitare la grafia di Albert alla perfezione e scrive che i suoi sentimenti sono cambiati. A questo punto il piano è giunto all’episodio conclusivo. Albert di colpo sparisce dalla scena pubblica, si saprà che si è ritirato nella Grande-Chartreuse, si è ritirato da tutto: Francesca, sentendosi tradita, si è già risposata. È una specie di vendetta — là dove la vera vendetta era (è) quella di Rosalie: attuata nel momento in cui credeva che i suoi piani di conquista di Albert fossero in via di compimento arriverà ad avvicinare a un ballo dell’Opéra Francesca Soderini e a consegnarle le lettere di Albert, insomma a svelarle tutta la verità.
Nei quattordici capitoli di Curtius la parola Vendetta non è diventata un titolo. Ma potrebbe essere nascosta nel capitolo «Religione». Potrebbe corrispondere più ancora che a una pura esigenza romanzesca (di conclusione d’un romanzo) a una visione, tutta balzachiana, di un fondamentale equilibrio cosmico. Ecco perché anche Rosalie avrà la sua punizione, anche su di lei si abbatterà la vendetta: esplode la caldaia di un battello a vapore su cui stava viaggiando, perde il braccio e la gamba sinistra, «il viso presenta orribili cicatrici che hanno cancellato del tutto la sua bellezza». Chi è il vendicatore? Ce n’è forse uno, una mente — romanzesca, di quelle nelle quali certi esiti sono pura sovrabbondanza, o astratta, indecidibile, certo non romanzesca — o non è che un caso, uno dei tanti della vita.