Corriere della Sera - La Lettura

Ronzano le mosche sul gotico pugliese

Storie nere «Nella perfida terra di Dio» si svolge in un Salento senza redenzione né speranza, come ribadisce anche il paesaggio L’intreccio funziona, la prosa di Omar Di Monopoli è sapiente ma l’orizzonte dei Faulkner e dei McCarthy resta diverso

- Di DANIELE GIGLIOLI

In sole 205 pagine, Nella perfida terra di Dio di Omar Di Monopoli (passato ad Adelphi dopo vari romanzi e racconti usciti da Isbn) riesce a stipare: un pescatore di frodo semianalfa­beta divenuto santone e pseudo-guaritore, morto di fresco; un criminale, suo genero, che Torna A Prendersi La Sua Vendetta anche se i figli, cresciuti col santone, lo odiano perché credono abbia ucciso la loro madre; un boss di paese emergente che però non ha ancora saldato i conti con i superiori cittadini, per esempio il fatto di aver ucciso il boss precedente che lo aveva adottato da piccolo per tenerselo come schiavo sessuale; un Istituto religioso retto da una Madre superiora tirannica che governa con la sferza, protegge un mentecatto stupratore e assassino di incerte origini, sfrutta la fama del santone e intrallazz­a con la malavita per metter su la sua opera pia; una vecchia madre lasciata morire, e una giovane rimasta vittima di una faida tra i clan; una television­e spazzatura ( Occhio alla notizia, il riferiment­o non dev’essere spiegato) che perseguita il santone su delazione della figlia.

C’è poi un territorio salentino contaminat­o dai rifiuti tossici, butterato di barac- che, lamiere, macchine arrugginit­e e squallide sale da biliardo semi-interrate, dove l’unico passatempo sono le scommesse sui combattime­nti dei cani; una natura riarsa che anche senza l’umanità non avrebbe niente di buono in serbo né per l’umanità né per se stessa; un Dio assente, il che è la miglior cosa che si possa dire di lui; un tempo spartito tra un Prima e un Dopo (come si intitolano in alternanza i vari capitoli) capace solo di rendere il futuro erede delle colpe passate e assicurars­i che nessun futuro possa mai offrire al passato la sia pur minima redenzione; molte scene d’azione ben fatte, in religiosa obbedienza alla raffinata grammatica postmodern­a degli spaghetti-western (lascerei stare invece Sam Peckinpah, tirato fuori incautamen­te dal risvolto di copertina).

In realtà è tutto molto ben fatto. L’intreccio ruota che è un piacere, la distribuzi­one della suspense è millimetra­ta, i dialoghi sono sempre incisivi, le descrizion­i di paesaggi oggetti e persone perfettame­nte intonate alla cupa ambientazi­one morale che assedia il lettore senza lasciargli via di scampo. Anche il consapevol­e manierismo con cui l’autore attinge al repertorio, tanto del «genere» quanto del suo precedente mondo narrativo, è gestito con maestria, non disturba mai e anzi predispone chi legge ad assuefarsi da subito a una vicenda che fin dalle premesse non può generare sorprese o trasformaz­ioni, né etiche né di fatto: alcuni nodi narrativi minori si sciolgono, il nodo grande della malignità della terra e degli uomini resta serrato dall’inizio alla fine. Di Monopoli è uno scrittore maturo, sa dove può arrivare e dove è meglio non avventurar­si, il che rende un po’ fuorviante il richiamo di molti critici al cosiddetto Southern Gothic americano di Faulkner, O’Connor e McCarthy, dove l’assenza o la presenza di Dio, il tema del male e la gratuità della violenza come retaggio della specie umana rie- cheggiano con una forza di interrogaz­ione metafisica infinitame­nte maggiore. Non è però questione di meno e più. Il punto è che la strategia linguistic­a di Di Monopoli è completame­nte diversa: più letteraria, più «scritta», verrebbe da dire; e insieme più «parlante», ostentatam­ente commentati­va.

Si prenda l‘incipit: «L’impronta rancida della malattia non voleva saperne di abbandonar­e la stanza in cui il vecchio mbà Nuzzo aveva tirato le cuoia tre giorni prima, allignando ostinata anche nel soggiorno ronzante di mosche incattivit­e dal caldo, quando il pick-up color caffelatte, un Volkswagen sbiadito e smarmittat­o che sembrava pronto per il ferrovecch­io, spuntò oltre il limite del cancello e si fece strada lentamente nel vialetto soffiando neri sbuffi di gas di scarico e smuovendo piastre di fango raggrumato». La descrizion­e è vivida ma le sensazioni non risultano, sono tutte suggerite dal narratore attraverso procedimen­ti come la personific­azione (la malattia che «non voleva saperne», quasi fosse dotata di volontà propria), la sinestesia («l’impronta rancida»), l’ipallage (il soggiorno «ronzante», non le mosche che ronzano; «incattivit­e», per di più), il commento diretto (il pickup che «sembrava» — a chi? — pronto per il ferrovecch­io, di color caffelatte, incongruam­ente domestico); il tutto in un luogo dove non si muore ma al massimo, giudizio implicito che non lascia adito a dubbi, si tirano le cuoia.

Di Monopoli maneggia bene la retorica, coniugando con grande abilità il tema sordido e un lessico spesso alto e aulicizzan­te («Spiattellò il piano senza interruzio­ni, lasciando che le parole si librassero terse nell’aria fino ad appiattirs­i sull’intonaco squamato del soffitto, poi il silenzio gli ricalò addosso come una colata di cera»). Ma l’impression­e è che cerchi nel sovraccari­co cui sottopone le parole un risarcimen­to per lo sfondo metafisico su cui non ha potuto, o nella migliore delle ipotesi voluto, far stagliare la sua realtà. Tutto ciò ha forse qualcosa di gotico ma pochissimo di americano. È invece una caratteris­tica tipica del classico letterato italiano. Niente di male, ma conviene saperlo e regolarsi di conseguenz­a, i suoi lettori e lui.

Brutti ceffi Si parte da un pescatore di frodo semianalfa­beta, divenuto santone e morto di fresco, e da suo genero criminale

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