Corriere della Sera - La Lettura
Ronzano le mosche sul gotico pugliese
Storie nere «Nella perfida terra di Dio» si svolge in un Salento senza redenzione né speranza, come ribadisce anche il paesaggio L’intreccio funziona, la prosa di Omar Di Monopoli è sapiente ma l’orizzonte dei Faulkner e dei McCarthy resta diverso
In sole 205 pagine, Nella perfida terra di Dio di Omar Di Monopoli (passato ad Adelphi dopo vari romanzi e racconti usciti da Isbn) riesce a stipare: un pescatore di frodo semianalfabeta divenuto santone e pseudo-guaritore, morto di fresco; un criminale, suo genero, che Torna A Prendersi La Sua Vendetta anche se i figli, cresciuti col santone, lo odiano perché credono abbia ucciso la loro madre; un boss di paese emergente che però non ha ancora saldato i conti con i superiori cittadini, per esempio il fatto di aver ucciso il boss precedente che lo aveva adottato da piccolo per tenerselo come schiavo sessuale; un Istituto religioso retto da una Madre superiora tirannica che governa con la sferza, protegge un mentecatto stupratore e assassino di incerte origini, sfrutta la fama del santone e intrallazza con la malavita per metter su la sua opera pia; una vecchia madre lasciata morire, e una giovane rimasta vittima di una faida tra i clan; una televisione spazzatura ( Occhio alla notizia, il riferimento non dev’essere spiegato) che perseguita il santone su delazione della figlia.
C’è poi un territorio salentino contaminato dai rifiuti tossici, butterato di barac- che, lamiere, macchine arrugginite e squallide sale da biliardo semi-interrate, dove l’unico passatempo sono le scommesse sui combattimenti dei cani; una natura riarsa che anche senza l’umanità non avrebbe niente di buono in serbo né per l’umanità né per se stessa; un Dio assente, il che è la miglior cosa che si possa dire di lui; un tempo spartito tra un Prima e un Dopo (come si intitolano in alternanza i vari capitoli) capace solo di rendere il futuro erede delle colpe passate e assicurarsi che nessun futuro possa mai offrire al passato la sia pur minima redenzione; molte scene d’azione ben fatte, in religiosa obbedienza alla raffinata grammatica postmoderna degli spaghetti-western (lascerei stare invece Sam Peckinpah, tirato fuori incautamente dal risvolto di copertina).
In realtà è tutto molto ben fatto. L’intreccio ruota che è un piacere, la distribuzione della suspense è millimetrata, i dialoghi sono sempre incisivi, le descrizioni di paesaggi oggetti e persone perfettamente intonate alla cupa ambientazione morale che assedia il lettore senza lasciargli via di scampo. Anche il consapevole manierismo con cui l’autore attinge al repertorio, tanto del «genere» quanto del suo precedente mondo narrativo, è gestito con maestria, non disturba mai e anzi predispone chi legge ad assuefarsi da subito a una vicenda che fin dalle premesse non può generare sorprese o trasformazioni, né etiche né di fatto: alcuni nodi narrativi minori si sciolgono, il nodo grande della malignità della terra e degli uomini resta serrato dall’inizio alla fine. Di Monopoli è uno scrittore maturo, sa dove può arrivare e dove è meglio non avventurarsi, il che rende un po’ fuorviante il richiamo di molti critici al cosiddetto Southern Gothic americano di Faulkner, O’Connor e McCarthy, dove l’assenza o la presenza di Dio, il tema del male e la gratuità della violenza come retaggio della specie umana rie- cheggiano con una forza di interrogazione metafisica infinitamente maggiore. Non è però questione di meno e più. Il punto è che la strategia linguistica di Di Monopoli è completamente diversa: più letteraria, più «scritta», verrebbe da dire; e insieme più «parlante», ostentatamente commentativa.
Si prenda l‘incipit: «L’impronta rancida della malattia non voleva saperne di abbandonare la stanza in cui il vecchio mbà Nuzzo aveva tirato le cuoia tre giorni prima, allignando ostinata anche nel soggiorno ronzante di mosche incattivite dal caldo, quando il pick-up color caffelatte, un Volkswagen sbiadito e smarmittato che sembrava pronto per il ferrovecchio, spuntò oltre il limite del cancello e si fece strada lentamente nel vialetto soffiando neri sbuffi di gas di scarico e smuovendo piastre di fango raggrumato». La descrizione è vivida ma le sensazioni non risultano, sono tutte suggerite dal narratore attraverso procedimenti come la personificazione (la malattia che «non voleva saperne», quasi fosse dotata di volontà propria), la sinestesia («l’impronta rancida»), l’ipallage (il soggiorno «ronzante», non le mosche che ronzano; «incattivite», per di più), il commento diretto (il pickup che «sembrava» — a chi? — pronto per il ferrovecchio, di color caffelatte, incongruamente domestico); il tutto in un luogo dove non si muore ma al massimo, giudizio implicito che non lascia adito a dubbi, si tirano le cuoia.
Di Monopoli maneggia bene la retorica, coniugando con grande abilità il tema sordido e un lessico spesso alto e aulicizzante («Spiattellò il piano senza interruzioni, lasciando che le parole si librassero terse nell’aria fino ad appiattirsi sull’intonaco squamato del soffitto, poi il silenzio gli ricalò addosso come una colata di cera»). Ma l’impressione è che cerchi nel sovraccarico cui sottopone le parole un risarcimento per lo sfondo metafisico su cui non ha potuto, o nella migliore delle ipotesi voluto, far stagliare la sua realtà. Tutto ciò ha forse qualcosa di gotico ma pochissimo di americano. È invece una caratteristica tipica del classico letterato italiano. Niente di male, ma conviene saperlo e regolarsi di conseguenza, i suoi lettori e lui.
Brutti ceffi Si parte da un pescatore di frodo semianalfabeta, divenuto santone e morto di fresco, e da suo genero criminale