Corriere della Sera - La Lettura
Milo De Angelis, l’estremista dei versi
Maestri L’autore milanese si conferma, con la pubblicazione delle sue opere complete, il più influente degli ultimi trent’anni del Novecento, insieme con Cucchi e Magrelli. La sua forza: la giustezza della parola significa giustizia
Ti ritrovo alla stazione di Greco magro come un rasoio e ulcerato da un chiodo che tu chiamavi poesia poesia poesia ed era l'inverno eroico di un tempo che si oppone alla vita giocoliera... e vorrei parlarti ma tu ti accucci in un silenzio ferito, ti fermi sul binario tronco, fissi il rammendo delle tue dita con la gola secca di fendimetrazina, e la palpebra accesa da mille frequenze mentre la Polfer irrompe nel sonno elettrico e riduce ogni tuo millimetro all'analisi del sangue... … vorrei parlarti, mio unico amico, parlare solo a te che sei entrato nel tremendo e hai camminato sul filo delle grondaie, nella torsione muscolare delle cento notti insonni, e ti sei salvato per un niente... e io adesso ti rifiuto e ti amo, come si ama un seme fecondo e disperato.
L’uscita in volume di Tutte le poesie di Milo De Angelis per Lo Specchio di Mondadori (nuova da oggi la veste grafica, nuovo il progetto editoriale), offre l’occasione per uno sguardo d’insieme sull’opera in versi dell’autore milanese. Non c’è dubbio che De Angelis sia uno dei poeti più significativi tra i tanti apparsi nell’ultimo trentennio del Novecento. Quanto a riconoscimenti, autorevolezza, influenza della posizione poetica forse è stato addirittura il più importante (da questo punto di vista si potrebbero però ricordare anche Maurizio Cucchi e Valerio Magrelli). È infatti un poeta molto amato sia da destra sia da sinistra, la sua poesia trova riscontri nella critica militante ma anche in quella accademica, i suoi versi hanno fatto scuola come quelli di nessun altro nel grande ventre del cosiddetto pubblico della poesia (un pubblico vastissimo che, com’è noto, scrive molto e legge pochissimo, ma che pure i testi di De Angelis li ha letti quasi sempre). Eppure insieme non sono mancate le riserve, anche molto forti: verso l’oltranza metaforica, l’ambiguità, il dettato sapienziale, il radicalismo dell’intendimento poetico, il culto della parola. In un modo o nell’altro, se si dovesse indicare un poeta-simbolo degli ultimi decenni della nostra poesia, forse la scelta dovrebbe ricadere proprio su di lui.
Come accade in massimo grado con Montale o con Zanzotto, si tratta di uno di quei poeti che anticipano costantemente i loro interpreti, al punto che parlando del suo lavoro si corre un po’ tutti il rischio di farsi mettere le parole in bocca. Si condividano poco o tanto le sue asserzioni, quando argomenta sulla poesia risulta infatti preciso come pochi. Non c’è che dire: in tempi di distrazione e di scarsissimo impegno nella riflessione poetica, De Angelis non l’ha mai fatta facile, ma ha continuato invece a crederci, a pensare, a tessere la sua tela. Fedele e incontentabile, è posseduto da un pensiero fisso, la poesia.
Per averne una prova basterebbe leggere le raccolte delle sue interviste (ne è uscita una qualche mese fa, La parola data, per le edizioni Mimesis) oppure il testo di un intervento teorico, Cosa è la poesia?, inserito nel presente volume mondadoriano (comprende anche una serie di inediti giovanili; la postfazione è di Stefano Verdino). Ogni volta parla di poesia, indubitabilmente. Al contempo, però, le prerogative, o meglio le tensioni costitu- tive del discorso poetico che mette in luce valgono in massimo grado per i suoi stessi versi: il rapporto tra contingenza e assoluto, tra istante e durata, tra pienezza e dispersione; poi i riferimenti alla grecità, al tragico e al sacro, al mito; o ancora la predilezione per termini quali destino, evento, attesa, ripetizione, permanenza, svelamento, frontale, decisivo, verticale, incombente.
La poesia può essere altre cose: narrazione, ironia, leggerezza, divagazione, impegno diretto e tant’altro. Eppure con gli attribuiti che De Angelis mette in gioco in modo così estremo, così radicale, penso che in qualche misura abbia sempre a che vedere. Nella sua opera, infatti, quegli elementi si presentano come allo stato puro. E un po’ come la biografia dell’uomo tende ad annullarsi nella figura del poeta, così i suoi versi sembrano voler coincidere con la poesia in quanto tale. Costi quel che costi: l’assenza di mezze misure, di buon senso e di compromessi, la religione della poesia, la fede cieca nella primogenitura e nel potere del verbo. Però è vero, il ragazzo che in Somi
glianze, il primo libro del ’76, cammina sui marciapiedi di una qualche periferia di Milano, nella nebbia di un giorno qualunque o nel buio di una delle tante notti cariche di mistero e di bagliori improvvisi, quel ragazzo che cosa sta cercando, che cosa sta aspettando? Per me non c’è dubbio: la poesia, la salvezza in forma di parole. In fondo la sua posizione, questo capofitto che non vuole raggiungere nulla che non sia l’assoluto, un inarrivabile tutto qui e ora che si rivela nella parola della poesia, è molto difficile da condividere pienamente. Ma è proprio per questo che ha un senso. De Angelis rappresenta comunque una tensione, una possibilità d’intensità e di essenzialità della parola poetica, proprio come fosse una bussola capace d’indicare sempre il nord, perfino attraverso le sue cadute. Tanto più in tempi di poco credito concesso alla poesia, questo spiega anche quel po’ di idolatria che si è creata attorno alla sua figura.
È singolare. Anti-ideologico e anti-politico, De Angelis è l’allievo più notevole che nell’arte poetica Franco Fortini abbia avuto. Ad avvicinarli, a renderli da questo punto di vista addirittura fraterni, è stata l’attenzione al valore capitale della parola. De Angelis lo ha detto spesso: parola giusta e giustizia verso la realtà per lui (per loro) fanno tutt’uno. Non è concesso sbagliare una virgola, insomma. Del resto, ha anche ripetuto più volte come il suo procedimento compositivo muova più dalla messa a fuoco delle parole che dalla vita: somiglianze, accostamenti, affinità, congiunture, ritmi, sonorità che diventano versi e immagini sorprendenti (non è la singola parola, bensì il verso-immagine la sua unità di misura) ma che valgono però come il riconoscimento di qualcosa di già dato, di saputo in profondità. Ecco, credo che il punto di risoluzione della sua poesia si trovi proprio qui, nella tensione tra arbitrio e necessità, tra gratuità e fondatezza, vale a dire nella capacità di agganciare alle cose le tante parole che elenca via via nel suo quadernetto. Per sua intima costituzione il nostro poeta contemporaneo che attribuisce il maggior peso alla proprietà delle parole è anche quello più a rischio di un loro impiego aleatorio. Come non pensare al clinamen del suo amato Lucrezio? Proprio come le sue riuscite sono uniche, e possiedono anzi qualcosa di predestinato, di magico, così il manierismo in De Angelis non è solo o tanto un fatto di epigoni, di imitatori (gliene sono toccati in sorte tanti, come a suo tempo a Ungaretti), ma costituisce un’eventualità che fa parte della natura stessa della sua poesia.
Somiglianze è una raccolta di grande qualità, non inferiore ad altre più o meno coeve dei maestri delle generazioni precedenti. E lo stesso vale per l’altro suo libro più bello, il quinto, Biografia sommaria del 1999. Tra i due cade invece il periodo meno felice, quello in cui il suo linguaggio poetico più ha patito di problemi di concretezza e consistenza. Ma poi gli ultimi libri sono tutti capaci di poesie importanti, esatte, speciali, poesie capaci di rimanere. Il suo immaginario elettivo — le azioni perfette, i gesti ingiustificati e compiuti in se stessi, quelli del gioco, dello sport, delle prove scolastiche, dell’amore — ha raggiunto una definizione poetica molte volte altissima. Non è da tutti. Affatto. Per questo De Angelis va preso così. Lo si può amare, lo si può criticare, ma non gli si deve chiedere di essere diverso da quello che è. Esposto forse più di ogni altro ai venti dell’indeterminazione e della poesia, veglia su un territorio arduo, ostile, selvaggio. Comunque sia, sappiamo che è lì, anche per noi. Milo è fatale, è inevitabile. Come il destino.
Tecnica Il suo procedimento compositivo muove più dalle parole che dalla vita: somiglianze, affinità, accostamenti, ritmi Sul quadernetto L’immaginario è fatto di gesti ingiustificati, quelli del gioco, delle prove scolastiche, dello sport, dell’amore