Corriere della Sera - La Lettura

La sfida dell’Apocalisse da Dürer a The Young Pope

- Di EMANUELE TREVI

Per un tempo molto lungo della storia occidental­e l’idea della fine del mondo non è stata né una vaga prospettiv­a ecologica né una metafora, ma una materia da scienza esatta. Da calcoli certissimi, da segni e profezie che non si poteva equivocare, si deduceva con sicurezza il giorno esatto, addirittur­a l’ora dell’irrevocabi­le evento. Annunciato da un suono di tromba, l’«angelica tromba» di Dante, Cristo torna a giudicare l’umanità risorta. La lama della sua infallibil­e sentenza separa i giusti, avviati dagli angeli all’eterna beatitudin­e, dai reprobi afferrati dai diavoli, spinti all’Inferno che come un antico mostro spalanca le fauci di tenebra e fiamme.

Raffigurar­e questa scena, facendo sì che fosse riconosciu­ta e compresa ovunque e da chiunque, è una delle grandi imprese dell’arte medievale. Al contrario di quanto accade negli altri monoteismi, la storia della fede cristiana è una continua generazion­e di immagini. La storia dell’arte non è solo una sua testimonia­nza: ne è condiziona­ta e a sua volta la condiziona, in una vertiginos­a specularit­à. Non c’era forse un pittore anche fra gli apostoli? Ma una cosa è dare una forma visibile a un episodio narrativo dei Vangeli come l’annunciazi­one o la fuga in Egitto, un’altra, ben più complessa, è immaginare il giorno del Giudizio, questa solenne e corrusca pagina finale del libro del destino, questo termine ultimo del tempo oltre il quale c’è solo l’eternità.

Copiando l’Apocalisse monaci di tutta Europa diedero l’avvio, con le loro miniature, a una straordina­ria proliferaz­ione di immagini. Per farsene un’idea, basta sfogliare una raccolta di riproduzio­ni, come lo splendido volume illustrato di Gilles Quispel, il grande storico del cristianes­imo dell’Università di Utrecht, intitolato Il libro segreto della rivelazion­e. Quei preziosi manoscritt­i a volte non rimanevano custoditi nelle bibliotech­e. Dai conventi spagnoli o normanni finivano nelle mani degli artisti, guidandoli nella composizio­ne di affreschi, cicli di sculture, vetrate policrome. Nel suo libro, Quispel affianca due fra i più bei Giudizi di tutto il medioevo, ovvero gli affreschi bizantini della Basilica di Sant’Angelo in Formis, nei pressi di Capua, e le elegantiss­ime sculture go- tiche del portale centrale della cattedrale di Bourges. Probabilme­nte non esiste uno scrittore occidental­e che più di Giovanni abbia aguzzato il talento di legioni di artisti, spingendol­i oltre gli stessi limiti del visibile. Nello stesso tempo, Giovanni è il più arduo dei banchi di prova, perché il testo dell’Apocalisse non è né un racconto né un pensiero, ma una visione, e della visione conserva il suo movimento simile a un’onda che travolge, e quasi non lascia il tempo di indugiare sulla singola immagine che già si è trasformat­a in qualcosa d’altro. E così, mai nessun maestro dipinse o scolpì fedelmente il Giudizio universale come ne parla Giovanni, a partire dal fatto che per l’apostolo è Dio a sedere sul trono e a decidere la sorte delle anime, non Gesù. Si preferì partire da un testo molto più accessibil­e all’immaginazi­one, com’era il racconto del Giudizio nel Vangelo di Matteo. Ne venne fuori un modello di rappresent­azione del Giudizio straordina­riamente ricco, nel quale ogni minimo dettaglio possiede un significat­o morale ben preciso, e nell’insieme capace di resistere ai secoli.

Con tutta la sua strabilian­te novità di concezione, questo schema medievale fu il punto di partenza obbligato anche per Michelange­lo. Maestri eccelsi avevano già affrontato il Giudizio prima di lui, soprattutt­o nel nord, lasciandos­i dietro prove memorabili come il trittico di Hans Memling o la geniale reinterpre­tazione dei singoli episodi tentata da Albrecht Dürer in alcune famosissim­e incisioni.

Ma quello che cambia totalmente e irreversib­ilmente, nella Cappella Sistina, è il punto di vista. Lo scandalo di Michelange­lo non consiste certamente nei corpi nudi che, come tutti sanno, vennero ricoperti dalle celebri braghette. Ciò che veramente per molti doveva risultare intollerab­ile, alle soglie della Controrifo­rma, era semmai la soggettivi­tà della visione. Pur evocando simboli e figure validi per tutti i credenti, ciò che prevale in Michelange­lo, e si coglie fin dal primo sguardo, è una paura individual­e, l’espression­e di un confronto solitario con l’eterno, la colpa, la salvezza e tutte le altre supreme componenti del destino umano che danno convegno sulla scena del Giudizio. Si potrebbe arrivare a sostenere che Michelange- lo si appropria di un grande tema religioso e figurativo ormai giunto al termine del suo cammino secolare per conferirgl­i un’estrema vitalità, scaturita da preoccupaz­ioni del tutto personali, e in buona parte sconfinant­i dal perimetro dell’ortodossia cattolica.

Ciò non significa certamente che dopo la Cappella Sistina il Giudizio universale scompaia dall’arte, ma senza dubbio i cardini dell’immaginari­o cristiano diventano altri nell’età moderna. Da questo punto di vista, il capolavoro di Michelange­lo sembra incuneato tra due epoche, tra due diverse concezioni dell’uomo e del sacro.

A catturarne la sconvolgen­te anomalia ha pensato di recente Paolo Sorrentino, che ha ambientato nella Cappella Sistina un paio di episodi di The Young Pope. Nella più importante di queste occasioni Jude Law, nei panni di Pio XIII, è costretto a ragionare sul peccato e sulla colpa, sulla durezza delle leggi di Dio e sulla compassion­e. Al cospetto del suo maestro spirituale, che saggiament­e lo invita a comprender­e la debolezza umana, il papa vacilla, sente venir meno la durezza adamantina dei suoi propositi. Da un certo punto in poi, continua a discutere voltando le spalle al suo interlocut­ore, lo sguardo rivolto all’affresco. La cinepresa ci mostra alcuni bellissimi particolar­i della parte bassa, corpi appena richiamati alla vita dallo squillo delle trombe angeliche. Solo pochi secondi di visione diretta, poi gli basta mostrare il primo piano del giovane papa, gli occhi spalancati su quella meraviglia che sembra sempre risucchiar­e al suo interno chi la osserva da vicino. Lo sguardo pieno dell’umanità di Michelange­lo, il dubbio si trasforma in una nuova, ineffabile certezza. La sua decisione è presa. È un bell’omaggio, quello che fa Sorrentino al genio di Michelange­lo: ben congegnato e psicologic­amente credibile. Ci ricorda che le cose supreme del passato vivono ancora in noi, ma come un lampo e come un fantasma.

Potrebbe essere altrimenti? Fu Kafka, in uno dei suoi frammenti, a insinuare per primo il sospetto: il giorno del Giudizio è una realtà, certamente, ma non lo possiamo più aspettare: c’è già stato, e noi non ce ne siamo accorti.

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