Corriere della Sera - La Lettura
La sfida dell’Apocalisse da Dürer a The Young Pope
Per un tempo molto lungo della storia occidentale l’idea della fine del mondo non è stata né una vaga prospettiva ecologica né una metafora, ma una materia da scienza esatta. Da calcoli certissimi, da segni e profezie che non si poteva equivocare, si deduceva con sicurezza il giorno esatto, addirittura l’ora dell’irrevocabile evento. Annunciato da un suono di tromba, l’«angelica tromba» di Dante, Cristo torna a giudicare l’umanità risorta. La lama della sua infallibile sentenza separa i giusti, avviati dagli angeli all’eterna beatitudine, dai reprobi afferrati dai diavoli, spinti all’Inferno che come un antico mostro spalanca le fauci di tenebra e fiamme.
Raffigurare questa scena, facendo sì che fosse riconosciuta e compresa ovunque e da chiunque, è una delle grandi imprese dell’arte medievale. Al contrario di quanto accade negli altri monoteismi, la storia della fede cristiana è una continua generazione di immagini. La storia dell’arte non è solo una sua testimonianza: ne è condizionata e a sua volta la condiziona, in una vertiginosa specularità. Non c’era forse un pittore anche fra gli apostoli? Ma una cosa è dare una forma visibile a un episodio narrativo dei Vangeli come l’annunciazione o la fuga in Egitto, un’altra, ben più complessa, è immaginare il giorno del Giudizio, questa solenne e corrusca pagina finale del libro del destino, questo termine ultimo del tempo oltre il quale c’è solo l’eternità.
Copiando l’Apocalisse monaci di tutta Europa diedero l’avvio, con le loro miniature, a una straordinaria proliferazione di immagini. Per farsene un’idea, basta sfogliare una raccolta di riproduzioni, come lo splendido volume illustrato di Gilles Quispel, il grande storico del cristianesimo dell’Università di Utrecht, intitolato Il libro segreto della rivelazione. Quei preziosi manoscritti a volte non rimanevano custoditi nelle biblioteche. Dai conventi spagnoli o normanni finivano nelle mani degli artisti, guidandoli nella composizione di affreschi, cicli di sculture, vetrate policrome. Nel suo libro, Quispel affianca due fra i più bei Giudizi di tutto il medioevo, ovvero gli affreschi bizantini della Basilica di Sant’Angelo in Formis, nei pressi di Capua, e le elegantissime sculture go- tiche del portale centrale della cattedrale di Bourges. Probabilmente non esiste uno scrittore occidentale che più di Giovanni abbia aguzzato il talento di legioni di artisti, spingendoli oltre gli stessi limiti del visibile. Nello stesso tempo, Giovanni è il più arduo dei banchi di prova, perché il testo dell’Apocalisse non è né un racconto né un pensiero, ma una visione, e della visione conserva il suo movimento simile a un’onda che travolge, e quasi non lascia il tempo di indugiare sulla singola immagine che già si è trasformata in qualcosa d’altro. E così, mai nessun maestro dipinse o scolpì fedelmente il Giudizio universale come ne parla Giovanni, a partire dal fatto che per l’apostolo è Dio a sedere sul trono e a decidere la sorte delle anime, non Gesù. Si preferì partire da un testo molto più accessibile all’immaginazione, com’era il racconto del Giudizio nel Vangelo di Matteo. Ne venne fuori un modello di rappresentazione del Giudizio straordinariamente ricco, nel quale ogni minimo dettaglio possiede un significato morale ben preciso, e nell’insieme capace di resistere ai secoli.
Con tutta la sua strabiliante novità di concezione, questo schema medievale fu il punto di partenza obbligato anche per Michelangelo. Maestri eccelsi avevano già affrontato il Giudizio prima di lui, soprattutto nel nord, lasciandosi dietro prove memorabili come il trittico di Hans Memling o la geniale reinterpretazione dei singoli episodi tentata da Albrecht Dürer in alcune famosissime incisioni.
Ma quello che cambia totalmente e irreversibilmente, nella Cappella Sistina, è il punto di vista. Lo scandalo di Michelangelo non consiste certamente nei corpi nudi che, come tutti sanno, vennero ricoperti dalle celebri braghette. Ciò che veramente per molti doveva risultare intollerabile, alle soglie della Controriforma, era semmai la soggettività della visione. Pur evocando simboli e figure validi per tutti i credenti, ciò che prevale in Michelangelo, e si coglie fin dal primo sguardo, è una paura individuale, l’espressione di un confronto solitario con l’eterno, la colpa, la salvezza e tutte le altre supreme componenti del destino umano che danno convegno sulla scena del Giudizio. Si potrebbe arrivare a sostenere che Michelange- lo si appropria di un grande tema religioso e figurativo ormai giunto al termine del suo cammino secolare per conferirgli un’estrema vitalità, scaturita da preoccupazioni del tutto personali, e in buona parte sconfinanti dal perimetro dell’ortodossia cattolica.
Ciò non significa certamente che dopo la Cappella Sistina il Giudizio universale scompaia dall’arte, ma senza dubbio i cardini dell’immaginario cristiano diventano altri nell’età moderna. Da questo punto di vista, il capolavoro di Michelangelo sembra incuneato tra due epoche, tra due diverse concezioni dell’uomo e del sacro.
A catturarne la sconvolgente anomalia ha pensato di recente Paolo Sorrentino, che ha ambientato nella Cappella Sistina un paio di episodi di The Young Pope. Nella più importante di queste occasioni Jude Law, nei panni di Pio XIII, è costretto a ragionare sul peccato e sulla colpa, sulla durezza delle leggi di Dio e sulla compassione. Al cospetto del suo maestro spirituale, che saggiamente lo invita a comprendere la debolezza umana, il papa vacilla, sente venir meno la durezza adamantina dei suoi propositi. Da un certo punto in poi, continua a discutere voltando le spalle al suo interlocutore, lo sguardo rivolto all’affresco. La cinepresa ci mostra alcuni bellissimi particolari della parte bassa, corpi appena richiamati alla vita dallo squillo delle trombe angeliche. Solo pochi secondi di visione diretta, poi gli basta mostrare il primo piano del giovane papa, gli occhi spalancati su quella meraviglia che sembra sempre risucchiare al suo interno chi la osserva da vicino. Lo sguardo pieno dell’umanità di Michelangelo, il dubbio si trasforma in una nuova, ineffabile certezza. La sua decisione è presa. È un bell’omaggio, quello che fa Sorrentino al genio di Michelangelo: ben congegnato e psicologicamente credibile. Ci ricorda che le cose supreme del passato vivono ancora in noi, ma come un lampo e come un fantasma.
Potrebbe essere altrimenti? Fu Kafka, in uno dei suoi frammenti, a insinuare per primo il sospetto: il giorno del Giudizio è una realtà, certamente, ma non lo possiamo più aspettare: c’è già stato, e noi non ce ne siamo accorti.