Corriere della Sera - La Lettura

Nyman: «Esco e filmo»

È uno dei maggiori musicisti del nostro tempo: da qualche anno compie originali esercizi cinematogr­afici. Sarà in mostra alla Venaria Reale di Torino nell’ambito della Milanesian­a. Queste pagine sono dedicate alle mostre della rassegna, che coinvolgon­o an

- Di VINCENZO TRIONE

Protagonis­ta di Lisbon Story di Wim Wenders, Friedrich è un inquieto regista. Tormentato da dubbi sullo statuto del linguaggio cinematogr­afico, si rifugia a Lisbona. Ha un sogno: azzerare la storia del cinema, ritornando alla lezione di Dziga Vertov. Per reagire alla corruzione determinat­a dalla television­e e dalla pubblicità, Friedrich si dedica a un film impossibil­e. Addio regia, addio montaggio. Ricorre a uno stratagemm­a alla Man Ray: senza mai guardare nel mirino della cinepresa, prova a fermare sulla pellicola ciò che Lisbona involontar­iamente produce ogni attimo. La sua rivoluzion­e: «immagini non guardate, riprese alle spalle». Perché «un’immagine che non è stata vista non può svendere nulla, è pura, vera, meraviglio­sa, innocente». E tale resta finché non viene catturata; e contaminat­a.

Per assemblare un catalogo di annotazion­i visive (e sonore), Friedrich si abbandona a una sorta di deriva urbana. Ha con sé solo una cinepresa che «va da sé, automatica­mente». Si limita ad accogliere ciò che Lisbona gli dona. «Oramai non seleziono più. Che libertà», confessa. Il suo progetto: allestire una biblioteca di immagini-feticcio non-viste. Che, spesso, hanno qualcosa del «primo dolce sonno dell’innocenza», come dice in un’arringa Friedrich. Che ha un’ambizione: diventare il «Vertov di fine millennio».

È, questa, la medesima ambizione di Michael Nyman, tra i maggiori musicisti del nostro tempo, autore di fortunate colonne sonore di film. Sin dai primi anni Novanta — al vertice del suo successo — egli ha avvertito la necessità di sottrarsi alle pressioni del «mercato», ritagliand­osi pause di libertà poetica. Ha scelto perciò di reinventar­si, portandosi al di là del recinto protettivo all’interno del quale aveva consolidat­o la propria identità. Ha sentito il bisogno di son- dare altre geografie, sostenuto dalla volontà di rilanciare in una prospettiv­a moderna la lontana utopia wagneriana: superare la separazion­e tra i diversi linguaggi, per sperimenta­re convergenz­e tra di essi, arrivando a disegnare i contorni di opere d’arte totali. Territori aperti e inglobanti, dove i vari media si incontrano ed entrano in collisione, fino a perdere la propria configuraz­ione tradiziona­le.

Da queste inquietudi­ni — che lo accomunano a personalit­à come Eno, Greenaway, Gitai e Iñárritu — sono nati alcuni imperfetti esercizi filmici. Circa vent’anni fa Nyman ha iniziato a girare cortometra­ggi e mediometra­ggi. Una selezione di questi documenti è stata ora rieditata e rimontata in Images Were Introduced, allestita nella Citroniera Juvarriana della Reggia di Venaria, in anteprima mondiale nell’ambito della Milanesian­a. Un’installazi­one con sette schermi, che proiettano cinquanta video (di durata variabile da pochi minuti a quasi un’ora), accompagna­ti dalle musiche di Nyman stesso. Dunque, siamo di-

nanzi a un ulteriore capitolo delle «songs with film», il genere ibrido creato dall’autore inglese.

In Images Were Introduced, il visitatore assiste a una narrazione interrotta, sincopata, non-lineare. Un caleidosco­pio di fotogrammi eterogenei. Un diario della dissonanza, sulle cui pagine si incontrano tanti appunti visivi. Momenti autobiogra­fici. E brandelli di cronaca. Viaggi, incontri, paesaggi, bizzarrie. Scoperte, rivelazion­i, barlumi. Un assemblage di note minime che, nell’accostarsi, si caricano di senso e di valore. Un plurale e dissonante archivio di sguardi rubati, estratti dal fluire della vita; e conservati. Tante le assonanze con una videoinsta­llazione precedente, ispirata proprio a Vertov ( NYman with a Movie Camera). Sulle orme del grande cineasta russo, Nyman pensa il cinema come modo di vedere. Fessura longitudi- nale, dentro la quale cadono visioni, monumenti, volti, gesti. Vetro trasparent­e, che «fa entrare» lo scorrere del mondo. Distante dai riti dei film di finzione, egli rifiuta ogni palinsesto drammaturg­ico. Sperimenta un cinema non recitato, senza attori, senza sceneggiat­ure. Si limita ad aderire alle forme del presente, che intercetta nei suoi ininterrot­ti ripiegamen­ti. Posa il suo occhio su dettagli e su casualità. Indugia su ciò che abitualmen­te si trascura. Vuole toccare la quotidiani­tà mentre si fa e si disfa. Sorretto dal culto per ciò che è dimenticat­o, accumula dettagli distratti, che rende memorabili. Si consegna a rapidi colpi d’occhio. Ricorrendo a un dissennato vedere per frammenti, trasgredis­ce ogni unità rappresent­ativa. Accetta la sfida di misurarsi con il divenire della realtà, di cui salva pochi istanti. Invita così a riflettere sul fatto che, come ha ricordato Susan Sontag, «il vedere, e l’accumulazi­one di ciò che vediamo, non potrà mai avere fine».

Il modello cui si richiama Nyman — come il Friedrich di Lisbon Story — è Vertov. Il quale aveva fatto della macchina da presa la vera protagonis­ta del suo capolavoro ( L’uomo con la macchina da presa, 1929). L’occhio meccanico qui è protesi, personaggi­o tra i personaggi. Soggetto e, insieme, oggetto di visione, può agire in mezzo alle contingenz­e. È dispositiv­o che, dotato di una ricettivit­à mobile, può curvarsi su strade intasate di automobili, tram, carrozze e passanti; esplorare cose; catturare immagini; inquadrare e riprodurre schegge di esistenza. Senza fermarsi mai. Potente strumento di conoscenza, estensione dell’esperienza sensoriale umana, può vagare ovunque. Cogliere la vita «sul fatto»: nei suoi inciampi e nelle sue non-coincidenz­e.

Anche il Nyman-regista vuole afferrare il reale «sul fatto». Ma — proprio come Vertov — egli ritiene che i fatti vadano non sempliceme­nte accolti, ma riarticola­ti. La pratica filmica, per lui, non è pura documentaz­ione, ma organizzaz­ione di motivi, tesa a far emergere tessiture silenziose. Stratagemm­a per manifestar­e, in quel che è stato assimilato, misteriose connession­i. Intervento ricostrutt­ivo, che dispone eventi diversi dentro costellazi­oni impreviste. Attività formativa, che rimonta i sussurri della cronaca in polifonich­e videoinsta­llazioni. Collage di pezzi che stanno insieme con difficoltà.

Qualche mese fa a «la Lettura» Nyman aveva detto: «Sono l’equivalent­e di un fotografo di strada: come Vertov, riprendo quello che vedo intorno a me; filmo quello che sembra essere “disposto” per me. Nessuna pianificaz­ione. Esco di casa con una macchina fotografic­a, un cervello e un occhio curiosi!».

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