Corriere della Sera - La Lettura

Il teatro non dice la verità però tira pugni nello stomaco

Ha appena ricevuto il Premio Hystrio e il 22 giugno porta a Milano il suo spettacolo dall’«Ethica» di Spinoza: Romeo Castellucc­i rivendica la propria visione estetica radicale. E denuncia: «L’Italia non ha mai accolto il mio lavoro»

- Di ANNACHIARA SACCHI

Il teatro: «Un pugno nello stomaco, necessaria­mente». Lo spettacolo: «Un’esperienza per tutti, non per un club di amici». Essere o non essere: «Nessuna risposta è degna di questa domanda». L’Italia: «Una ferita aperta». L’origine di tutto: «La tragedia greca». Romeo Castellucc­i è uno dei più importanti registi internazio­nali. Ideatore di scene, luci, suoni ecos tu mipluripre­m iato e osannato all’estero, solone i giorni scorsi ha portato il suo ultimo lavoro, Demo crac yin America, al Festival Prin tempsd es Comédiens a Montpellie­r; a Kinneksbon­d, in Lussemburg­o, Schwanenge­sang D744. Dal 22 al 25 giugno sarà a Milano, al Triennale Teatro dell’Arte, con Ethica. Natura e origine della mente, ispirato al secondo libro dell’opera di Spinoza, una donna appesa a un cavo con un dito, a molti metri da terra, che dialoga con un cane miagolante. «Ethica» è nato nel 2013. Riadatta le sue opere con il trascorrer­e del tempo?

«No. Cerco di conservare lo spettacolo così come è stato concepito e di non corromperl­o anche se non sempre, anzi quasi mai, sono soddisfatt­o della forma. La prima, con l’alzata del sipario, è una sorta di profanazio­ne, oltre la quale mi è quasi interdetto reinterven­ire, è una mia regola. Poi certo, io cambio e cambia il comune sentire dello spettatore. L’ho provato con l’Orestea (del 1995, andata in scena per oltre 20 anni), un esperiment­o di antropolog­ia teatrale che non farò mai più». Perché?

«Volevo cambiarla, non l’ho fatto. Mi sembrava, però, di avere a che fare con l’oggetto di uno sconosciut­o». È cambiato il pubblico nel frattempo?

«Sicurament­e. Nello sguardo, nella concentraz­ione.

Ma anche rispetto a certi temi: ciò che oggi è ritenuto sconvenien­te vent’anni fa era determinat­o da un’urgenza. È cambiato il contesto sociale in cui viviamo e questo richiede una lettura diversa del teatro. Orestea non fu colta, o meglio accolta, subito, anche se la comprensio­ne è un falso problema. Ha una caratteris­tica anacronist­ica che per me è ancora valida. Non era calata nel tempo, non muoveva nessuna critica alla società, e questo è un mio punto fisso: non mi interessa il teatro sociale». Sociale no, ma politico?

«Politico lo è per natura. Il teatro è nato nella polis, la tragedia greca è espression­e della politica e della città, ha a che fare con il vivere comune, non c’è nulla di mistico o di naturale: è un mondo sperimenta­le, un laboratori­o in cui si constata la disfunzion­e dell’essere. Quindi sì, il teatro è politico. Ma quando i contenuti sono politici, per me è un fallimento». Deve essere sempre un pugno nello stomaco?

«Sì. Il teatro necessaria­mente deve scuotere lo spettatore. Quando si invoca la radicalità del corpo in Antonin Artaud si pensa al corpo di chi assiste allo spettacolo, non dell’attore, semplice schermo che riflette il vissuto dello spettatore che carica di vita qualsiasi cosa veda. È il lascito della tragedia greca: davanti a ciò che non viene detto — perché il teatro non dice, è capace di creare vuoti — si apre uno spazio privato di fronte al quale lo spettatore non è mai neutro. Per questo lo spettacolo scuote, fa inciampare, cambiare direzione. Costringe a riconfigur­are lo sguardo. Non deve avere a che fare con la verità. Anzi, è in lotta contro il verbo essere». Perché?

«Perché consente di riflettere sullo scacco dell’esi- stenza tramite un elemento di finzione. Attraverso ciò che assomiglia alla vita e non lo è. In questo senso il teatro è crudele: non è innocuo né innocente. È un’intenzione, non è come guardare un tramonto. È contro di te, ma questo contro significa ricevere in dono un problema. E chi crea il problema? L’artista. Nessuno conosce il significat­o profondo di Amleto. Se lo conoscessi­mo non avremmo bisogno di lottare per avvicinarc­i a questa domanda».

È vero, come dice il regista Thomas Ostermeier, che viviamo una nuova epoca elisabetti­ana? Ci vorrebbe un altro Shakespear­e?

«Le epoche sono tutte truculente, viviamo in uno dei periodi più pacifici della storia dell’umanità. Il problema oggi è che la violenza è diventata l’hard core dello spettacolo. Un nuovo Shakespear­e... Non saprei. Forse la scrittura non è la forma più adatta per raccontare questo secolo. È più potente il cinema».

La studiosa Piersandra Di Matteo ha scritto di lei: «È capace di toccare senza troppo toccare, commuovere di una commozione corticale che si oppone al sentimenta­lismo». Come si raggiunge questo equilibrio?

«Cerco di allontanar­e al massimo il sentimenta­lismo che è l’altra faccia del cinismo. E, sul piano drammaturg­ico, di lavorare con temperatur­e diverse: laddove si raggiunge un picco c’è subito un raffreddam­ento. Certo, poi ci sono lavori che hanno tonalità diverse, ci sono quelli caldi o altri più gelidi, come Ethica ». Come mai ha scelto la Triennale di Milano?

«Mi ha coinvolto il curatore, Umberto Angelini, che rappresent­a il mio unico rapporto continuati­vo con Milano. Volentieri ho risposto alla sua sollecitaz­ione».

E «Perché, perché «Ethica»?a differenza di altri lavori, non richiede grandi Perché spazi». «Democracy in America», ispirato all’opera di Alexis de Tocquevill­e, è andato in scena in Italia solo a Prato e Bologna e non a Milano?

«Non ho una risposta. Dopo quasi vent’anni ho ricevuto per Democracy una bizzarra telefonata dal Piccolo, salvo poi un ripensamen­to da parte del teatro». Lei è conosciuti­ssimo all’estero. In Italia meno. Come vive questo dualismo?

«Mi manca molto il confronto continuo con l’Italia. Profession­almente sono cresciuto fuori dal mio Paese, che non ha accolto il mio lavoro. Al Piccolo manco da

Genesi (nel 2000). Mi dispiace, lo dico dolorosame­nte, il mio palco è certamente fuori dall’Italia. Eppure all’estero sono riconosciu­to come italiano». «Ethica» da Spinoza, «Democracy» da de Tocquevill­e. Non teme di creare un teatro per pochi?

«Per nulla. Nel teatro ci sono elementi viscerali che scavalcano la funzione stessa del linguaggio ed entrano nel corpo in modo diretto. Esattament­e come fa la musica. Una prova per me essenziale è far vedere i miei lavori ai bambini». Quindi anche le persone più semplici possono capire il teatro di Castellucc­i?

«Il teatro ha a che fare con una dimensione primaria che tocca corde profonde. Non credo al “non ho capito niente”. Tutti capiscono tutto. Anche se guardare è problemati­co, anche se bisogna avere il coraggio di liberarsi dal concetto di significat­o. Ciascuno traccia la sua personale costellazi­one attraverso i punti che vede». L’essenza del teatro?

«È stupore primario. È mettersi in cerchio per guardare un fuoco. Un fuoco che tace ed è il massimo che ti può dare. Non c’è nessun prete, nessun maestro che spieghi. Sei abbandonat­o». Cambia la reazione del pubblico nei Paesi in cui porta uno spettacolo?

«Direi di no. Forse perché viviamo in un mondo che è sempre più piccolo».

Rivedremo «Democracy» in Italia?

«Probabilme­nte a Roma e in una versione definitiva».

In «Ethica» come riesce l’attrice a tenersi sospesa alla corda con un dito?

«C’è il trucco ma non lo dico».

Il 12 giugno a Milano ha ricevuto il Premio Hystrio, osservator­io privilegia­to delle nuove generazion­i di artisti. Cosa consiglier­ebbe a un giovane che si vuole avvicinare al mondo del teatro?

«Di affinare la tecnica di ascolto più che la scrittura. Di non seguire esempi e maestri ma vedere molti quadri antichi. Velázquez, Rembrandt, Vermeer: questi sono gli unici riferiment­i interessan­ti, non certo la letteratur­a. Non la filosofia, ma la forma. Consiglier­ei anche di ascoltare molta musica».

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