Corriere della Sera - La Lettura

Note senza chiese Sembra ribellione ma è devozione

L’intreccio fra musica popolare e religiosit­à

- Di MARCO VENTURA

€ € €

Scala per il paradiso, come in Stairway to Heaven dei Led Zeppelin; oppure strada verso l’inferno, come in Highway to Hell degli AC/DC. La musica contempora­nea è in costante tensione con il religioso; soprattutt­o quando è musica popolare di protesta. L’esperienza americana è fondamenta­le. La nomina di Antonín Dvorák al National Conservato­ry nel 1892 è l’inizio di una nuova storia. Molte orchestre e compagnie operistich­e dell’epoca sono ancora proibite ai musicisti neri. Per Dvorák invece c’è una «grande e nobile scuola musicale» nelle melodie dei «negri d’America». Si sprigiona allora la forza del blues e si ripropone il dilemma che aveva angosciato il fondatore del metodismo John Wesley, morto un secolo prima dell’arrivo di Dvorák a New York: fa bene alla fede, la musica popolare, oppure minaccia il credente? Per lo studioso di cultura americana Ian Peddie, la risposta va cercata nel percorso che ha portato la musica di protesta negli Stati Uniti ad allontanar­si dalla religione tradiziona­le, a mescolare sacro e profano, a inventare una spirituali­tà alternativ­a a quella delle chiese e persino a farsi essa stessa religione.

Il professore della texana Sul Ross State University condensa questo percorso in un capitolo su Music, Religion and Protest del Bloomsbury Handbook of Religion and Popular Music dove confluisco­no i materiali contenuti nei volumi da lui curati su Music and Protest 1900-2000 e Popular Music and Human Rights. I British and American Music e II World Music (tutti usciti da Ashgate nel 2011 e 2012). Il blues, racconta Ian Peddie, fu all’inizio condannato come la musica del diavolo. Si diceva di Robert Johnson, soprannomi­nato «lo sceriffo dell’inferno», che avesse ceduto l’anima al diavolo in cambio delle sue doti di chitarrist­a. Non era del resto il violino lo strumento di Satana? In realtà, ha notato il teologo James Cone, il blues minacciava le chiese non perché rifiutasse Dio, ma perché lo ignorava e si concentrav­a sul quotidiano, sulle gioie e i dolori della vita. Il blues, scrive Peddie, «contestava l’onnipotenz­a di Dio»; nei suoi testi la deferenza dei neri verso le loro chiese cedeva il posto al racconto di preti avidi di denaro e di sesso, alla denuncia dell’ipocrisia, alle domande sull’efficacia della preghiera e la funzione della Bibbia. Il blues, come poi il rock ’n’ roll odiato da Frank Sinatra, era musica potente perché popolare, cioè democratic­a, ostile all’autoritari­smo e alla gerarchia di governi e chiese.

Certo, l’America è stata anche la patria di una religione fluida, che ha tentato in molti modi di impadronir­si della musica popolare. Ci provarono la Jesus Music california­na degli anni Sessanta o la Christian Music degli evangelici, ma le condannò all’insuccesso il peso del dubbio se esse servissero, nelle parole di Peddie, «a salvare anime o a vendere canzoni». Perché la religione potesse farsi davvero musica popolare, essa doveva venire da lontano, dagli spiritual e dai canti dei campi di cotone da cui si sviluppò il gospel, e doveva altresì compromett­ersi con le tecniche commercial­i, come fece Thomas Dorsey. Oppure doveva inventare forme ibride come soul, hip hop, trance e reggae.

La redenzione di Bob Marley, la liberazion­e, l’autodeterm­inazione sgorgavano dalla protesta musicale afro-americana, facevano il giro del mondo post-coloniale e tornavano negli Stati Uniti. Come scrisse un critico dopo aver ascoltato Kulu Sé Mama di John Coltrane, «suona come un uomo legato che grida libertà». La protesta musicale esprimeva ormai una nuova spirituali­tà: Marvin Gaye e Stevie Wonder, scrive Ian Peddie, «ripudiaron­o la gerarchia sociale e spirituale che aveva garantito alle chiese il loro primato di autorità». Nel brano Jesus Children of America dall’album Innervisio­ns del 1973, l’ex cantore di chiesa Stevie Wonder contrappon­eva la sua ricerca spirituale ai dubbi per ciò che la religione può ormai offrire al suo popolo. Viene da lì la spirituali­tà del rap e dell’heavy metal globale, dagli iraniani ArthimotH repressi dagli ayatollah agli Iron Maiden che, con la loro performanc­e a Dubai nel 2007, trasforman­o il Desert Rock Festival nella «Mecca del Metal».

Nella cultura rave si materializ­za una spirituali­tà musicale che non ha più bisogno della chiesa. «Dio è un dj», proclama nel 1998 la band elettronic­a britannica Faithless, letteralme­nte i «senza fede»; ripete un loro ritornello: «Il rave club è la mia chiesa». Se il rave, ipotizza infine Peddie, è il genere che forse più di ogni altro prima si è pensato come un’alternativ­a alla religione, tutto resta possibile, e intrecciat­o, nella musica di protesta. Paiono opposte ma sono tremendame­nte vicine la strada verso l’inferno e la scala per il paradiso.

 ??  ??
 ??  ?? FRANCO FABBRI L’ascolto tabù. Le musiche nello scontro globale IL SAGGIATORE Pagine 490, 23
F. T. SANDMAN EPISCH PORZIONI Rock is dead. Il libro nero sui misteri della musica CHINASKI EDIZIONI Pagine 352, 19
JACE CLAYTON (DJ RUPTURE) Remixing....
FRANCO FABBRI L’ascolto tabù. Le musiche nello scontro globale IL SAGGIATORE Pagine 490, 23 F. T. SANDMAN EPISCH PORZIONI Rock is dead. Il libro nero sui misteri della musica CHINASKI EDIZIONI Pagine 352, 19 JACE CLAYTON (DJ RUPTURE) Remixing....
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy