Corriere della Sera - La Lettura
Sugli scogli dei patrioti Dokdo, le isole alla fine del mondo
Diversi arcipelaghi sono al centro di crisi nel mondo: uno di questi divide Sud Corea e Giappone. «La Lettura» lo ha visitato
Quando l’aliscafo attracca e gli uomini della guardia costiera si allineano facendo il saluto militare, le bandiere sudcoreane nelle mani dei viaggiatori cominciano a vibrare agli accenni di inno nazionale. Subito è tutta una corsa alla foto ricordo con i soldati e a mettersi in posa accanto al cippo che afferma che queste, le isole Dokdo, sono coreane, coreanissime, il più orientale lembo di territorio patrio. «Sono nostre, quindi era giusto vederle» proclama Ahn Eui-joon, 65 anni. Yang Shin-chun, sciamana cinquantunenne, dice invece di essere «venuta qui a pregare» e si fa fotografare srotolando un piccolo striscione patriottico. E Lee S.-w., ufficiale di polizia assegnato per due mesi al presidio sulle Dokdo, conferma che quelli appoggiati accanto sono effettivamente «scudi che potrebbero servire se sbarcassero turisti giapponesi in vena di provocazioni».
Due scogli o poco più, le Dokdo. Meno di 0,2 chilometri quadrati di precipiti lingue d’erba e di scoscese balze laviche bersagliate dalle deiezioni degli uccelli marini e da condizioni atmosferiche proibitive: isole alle fine del mondo, alla fine di un mondo — quello coreano — che fa risalire la sovranità su di esse al 512 dopo Cristo. Fu durante la dinastia Silla, quando il re Jijeung annesse l’isola di Ulleungdo da dove anche oggi si raggiungono le Dokdo, «visibili a occhio nudo in un giorno sereno», come riportano gli antichi documenti. Il Giappone, tuttavia, rivendica il mini arcipelago, che chiama Takeshima. Tokyo sostiene che la sua esistenza «era nota al Giappone già nell’antichità», che non è vero che in Corea si conoscessero le Dokdo durante l’epoca Silla e che la sovranità nipponica risale al Diciassettesimo secolo. I coreani elencano altre carte (addirittura alcune giapponesi che nell’Ottocento e nel Novecento negavano la sovranità di Tokyo) e considerano l’annessione nipponica delle Dokdo del 1905 il primo atto della colonizzazione della penisola subita da parte del Sol Levante (1910-1945). La contesa paradossale oppone due Paesi che nel fragile teatro geopolitico dell’Asia Orientale si ritrovano sullo stesso versante: alleati degli Usa, inquieti per le provocazioni della Nord Corea e per le ambizioni della Cina. Ma il duello s’alimenta dell’ostilità generata dai 35 anni di dominio del Giappone sulla penisola.
Seul, forte delle proprie convinzioni, afferma che intorno alle Dokdo non esista alcuna controversia e perciò non sia necessario il coinvolgimento di alcun organismo internazionale. Non c’è mappa che non indichi le Dokdo nel «Mare Orientale» (non «Mar del Giappone»...) mentre nella capitale un museo visitato nel 2016 da oltre 24 mila persone (metà studenti) celebra, con installazioni multimediali e proiezioni 4D, le bellezze del selvaggio avamposto ed espone i documenti che attestano l’«incontrovertibile sovranità» sulle Dokdo. I nazionalisti sudcoreani chiedono però un piglio più vigoroso da parte delle autorità: «Abbiamo cinquemila membri — spiega a “la Lettura” Chun Il-jae, segretario generale della Korea Dokdo Love Association — e vorremmo che il ministero dell’Educazione facesse di più. Quando in Giappone si mobilitano dicendo che le isole sono loro, noi siamo pronti a contro-mobilitarci».
Sulle Dokdo, a parte i saltuari sbarchi di turisti, c’è poca folla. La presenza stabile sull’arcipelago, dove è possibile sbarcare solo una cinquantina di giorni l’anno, è limitata a due residenti, una coppia di anziani pescatori, Kim Sung-do e la moglie Kim Shin-yeol, che all’uopo vendono bandiere e materiale patriottico: abitano in un edificio protetto da un muro che tiene alla larga le mareggiate. Sull’isola accanto, poi, una caserma accoglie militari e guardiani del faro; le infrastrutture sono completate da un eliporto e da pochi, ripidissimi sentieri. Nel 2011, per adeguare le Dokdo alla toponomastica nazionale, anche la sequenza di gradini che si inerpica verso il faro ha avuto un nome e un’insegna come una strada qualunque, Dokdoisabu-gil, benché vietata ai visitatori che per una mezz’ora sciamano sul cemento bagnato dell’attracco.
Vista da qui la storia sembra più inoffensiva del mare che assedia gli scogli, avaro (per ora) di risorse. A Seul invece la sensibilità sul tema delle Dokdo è autentica, assicura Lee Jung-myung, scrittore fra i più popolari: «La questione — dice a “la Lettura” — non riguarda soltanto la sovranità territoriale ma ha a che fare con la coscienza di quello che il passato coloniale del Giappone significa per noi coreani. Tokyo non ha chiesto adeguatamente scusa per i tanti crimini contro l’umanità ai nostri danni commessi durante il periodo imperialista. E temiamo che le politiche regressive e le ambizioni territoriali del premier Shinzo Abe possano portare il Giappone a ripetere gli errori del passato». Le Dokdo vigilano.