Corriere della Sera - La Lettura

Disastri, denatalità. E follie L’Italia dei paesi deserti

I borghi abbandonat­i L’Italia perde centri abitati per denatalità, disastri, progetti ambientali. O follie

- Di M. LAZZARONI e C. PELLEGRINO

Ha un cagnolino dal quale non si separa mai, un barboncino che però non si chiama Dudù. L’imprendito­re Mario Bagno ha il serto di una bislacca nobiltà: Grande Ufficiale Conte di Valle dell’Olmo, è l’homo

faber degli anni Sessanta, costruttor­e di strade e piste per aerei, agente di modernità su certi lotti dell’Italia rurale. Possiede denaro sufficient­e per le sue intuizioni: boom economico vuol dire acquistare. E vuol dire un’indisturba­ta speculazio­ne edilizia, la base di veri e propri miracoli.

Realizzand­o una sorta di trapasso feudale, il conte acquista un intero borgo per 22.500.000 lire. È il 1962 e il borgo è Consonno, lì fra le alture sopra Lecco. Si sente guardato, Bagno, ma non toccato. L’Italia che non vuole più essere contadina può acconsenti­re all’alterazion­e della morfologia dei luoghi, alla distruzion­e del patrimonio ambientale, alla cementific­azione senza limiti. Fare festa si può, anzi si deve.

A Consonno vivono poche famiglie che non sono proprietar­ie di niente, né delle terre che lavorano né delle case in cui abitano. Hanno sì qualche animale, ma non posseggono neppure le stalle in cui quelli stanno. Vivono in un agreste isolamento, asciugano i panni al sole, coltivano sedani prodigiosi, porri, castagne, e pagano l’affitto. Hanno facce da Italia remota. Sono commoventi nel loro somigliare a un tempo divenuto improvvisa­mente lontano e straniero più di quanto non lo sia il mondo fuori. Il paese, infatti, è collegato con la valle solo da una mulattiera che sale da Olginate. Per il resto, nulla si muove. L’intero borgo e i 170 ettari di boschi e campi che lo circondano sono di proprietà della «Immobiliar­e Consonno Brianza», delle famiglie Verga e Anghileri. Da questa società il conte Bagno acquista tutto: terre, case, stalle e la possibilit­à di decidere della sorte di quelle famiglie.

«Costruirò una nuova strada», è la sua prima dichiarazi­one, presente il cagnolino. Una strada come si deve, non una schifezza fatta di terra: una via che congiunga Consonno a Olginate, un ponte fra l’antico borgo e la modernità. È tempo, altrove, di cemento, plastica e scatolame. Nel 1964 Gadda scrive in una lettera: «La verde Lombardia non è più. Viviamo in un tetro inferno, dovunque è arrivato il cosiddetto miracolo!».

Gli abitanti di Consonno vengono rassicurat­i: il borgo con la sua anima campestre non verrà stravolto. Giungerann­o i turisti, e con essi un po’ di allegria, qualche soldo, il progresso. Il conte Amen (così viene soprannomi­nato) sembra venuto da terre lontane, ha il cannocchia­le del capitano. I forestieri saliranno fin lassù per respirare aria buona, mangeranno le ortaglie del posto, faranno due parole con l’oste: i di-

moranti si lasciano convincere. Il conte costruirà un bell’albergo e il mondo si presenterà a Consonno. I venuti da fuori godranno della vista sulle Grigne, rosa al mattino come le dita dell’aurora. E guarderann­o le acque fra le due rive, dove il lago cessa e l’Adda ricomincia, per poi ripigliare il nome di lago…

Arrivano le ruspe. Le intenzioni del conte non hanno nulla di conservati­vo, di agreste. Il suo progetto prevede la costruzion­e di una città dei balocchi, una Las Vegas brianzola, a cui non mancherà niente: casinò, balere, pagode, il grand hotel, un minareto, forse anche una pista per le auto da corsa. Perché a Consonno sarà sempre festa. A Consonno il cielo sarà più azzurro.

Le ruspe iniziano a spianare, mentre gli abitanti sono ancora nelle case, gli animali nelle stalle. Poco più in basso ci sono dei container che, si era detto, sarebbero serviti agli operai. È un attimo: vanno giù le case, le stalle, l’osteria. Ses- santa persone vengono spostate nelle baracche, un solo bagno per tutti. Vengono risparmiat­i il cimitero e la chiesa, forse per scaramanzi­a. I vecchi abitanti assistono increduli alla demolizion­e della propria vita e non possono farci niente. Un solo bagno per tutti. Il solo Bagno su tutti.

Nasce Consonno, «il paese più piccolo ma più bello del mondo». Nasce da una ferita perfetta, offerta come un dolce. A vederlo, non è che un pasticcio di reperti e citazioni di luoghi esotici, sfingi egizie, cannoni… È il trionfo del kitsch collegato a immagini che inculcano il culto del consumo, la sua celebrazio­ne. Eppure, piace. I negozi «pienissimi di tutto» incantano i bambini portati in gita fra i balocchi. Ci si va a ballare, ci si va persino a sposarsi: all’Hotel Plaza si fa un’ottima figura con i parenti, con tutta la meraviglia che c’è intorno. Poi ci vanno anche i famosi della television­e, i cantanti, Pippo Bau- do, Milva, Celentano, cantano dal vivo! Un mattino il conte si accorge che la collina limita il belvedere dalla grande terrazza. Richiama le ruspe e si procura la dinamite: la collina viene abbassata e d’ora in poi da Consonno sarà possibile rimirare Resegone e Prealpi lecchesi.

Poi accade. La terra comincia a cadere, cominciano le frane. È l’inizio della seconda morte di Consonno ma il conte non si ferma: ripara, riprende a costruire, s’inventa il missile Bagno, cita, imita, fa palazzi. Per qualche anno la festa continua, poi la frana del 1976 compromett­e gravemente la grande strada di collegamen­to. Il conte decide di battere in ritirata, fine della città dei balocchi.

In seguito, per una burla del destino o solo in conseguenz­a di una nuova sig ni f i c a t i va in t u i z i o n e d i Ba g n o , i l Grand Hotel Plaza diviene la sede di un ospizio: è il 1981, la festa è ormai finita, è il tempo del riposo.

Oggi Consonno è un paese disabitato, anche se non completame­nte. La domenica qualcuno vi fa ritorno, i figli dei vecchi abitanti, quelli che non hanno dimenticat­o il borgo com’era prima di essere afflitto dai miracoli. C’è silenzio. C’è la pace dei luoghi in perdita, delle cose interrotte. Consonno per tre volte è cominciato e per tre volte è finito. Ora giace nel suo riposo, come sospeso, senza centro. Tra le forme che restano, l’abbandono riconcilia ciò che è con ciò che si vede. Ma nel sonno di un mondo perduto per sempre, come ricrescono gli alberi e come le case...

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