Corriere della Sera - La Lettura
Così abbiamo ritradotto García Márquez e Camus
A cinquant’anni dalla pubblicazione di un capolavoro della letteratura mondiale, Ilide Carmignani ha ritradotto per Mondadori «Cent’anni di solitudine» . Perché? «Il romanzo originale ha un numero di vocaboli inferiore a quello della vecchia versione ital
Per prima cosa, due date: 1948, anno della traduzione italiana de La peste di Albert Camus a firma di Beniamino Dal Fabbro per Bompiani, e 1968, anno in cui compare per Feltrinelli la traduzione di Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez (uscito l’anno prima) firmata da Enrico Cicogna. Le due date significano questo: che finora per tutti i lettori italiani, generazione dopo generazione, quelle traduzioni hanno letteralmente incarnato i due classici.
Però sono passati quasi 70 e quasi 50 anni. Il giovane scrittore francese che nel 1948 con La peste era al suo secondo romanzo, nel frattempo è diventato uno dei più importanti intellettuali francesi, Premio Nobel nel 1957, ed è scomparso in un incidente stradale nel 1960. E quello scrittore colombiano inedito in Italia nel 1968, ha ottenuto il Nobel nel 1982 e ha completato la sua vasta bibliografia, spegnendosi nel 2014 salutato come un gigante.
Perciò, forse la questione va divisa in due aspetti: da una parte, è trascorso molto tempo ed era necessario metter mano alle vecchie traduzioni, se non altro perché oggi si sa molto di più della poeti- ca dei due autori. Dall’altra, è però certo che con quelle vecchie versioni ci siamo formati, entusiasmati, innamorati di Márquez e di Camus: funzionavano.
Sono appena uscite le nuove versioni delle due opere: il romanzo di Márquez ritradotto da Ilide Carmignani negli Oscar Moderni Mondadori, e quello di Camus nella versione di Yasmina Mélaouah per Bompiani. Nell’infografica in questa pagina confrontiamo gli incipit e i finali delle vecchie e delle nuove traduzioni, con parole e frasi evidenziate in colore (dove è cambiato un vocabolo o una frase), e con «spunte» in rosso (dove qualcosa manca oppure è stato tolto).
Ebbene, a una prima lettura i cambiamenti sembrano di poco conto: poche inversioni all’apparenza minime, molti sinonimi, qualche forma meno aulica, come gli zingari che da cenciosi diventano
straccioni, alcune costruzioni diverse. Poi però, procedendo nel romanzo, i cambiamenti saltano all’occhio: fino ad arrivare al clamoroso finale di Cent’anni di solitudine, in cui gli specchietti diventano i miraggi. Abbiamo chiesto a ciascuna delle traduttrici di spiegarci i motivi, il senso, di queste nuove versioni.
«Diciamo che è stata una ripulitura — inizia Ilide Carmignani —, ho lavorato al secondo volume dei Meridiani di Márquez e quindi ho consuetudine con la sua scrittura. Si sa poco di come sia nata e come sia stata fatta la prima traduzione, ma è certo (anche a livello critico) che cade nel fenomeno dell’esotizzazione. Per capire di che si tratta faccio un esempio: le
mansiones de calicanto di Márquez sono tradotte come magioni di calicanto, cioè in sostanza palazzi fatti di fiori, mentre il
calicanto in spagnolo è un materiale da costruzione, calis, cioè calce, più cantus, lato». Così, dobbiamo dire addio ai sognanti palazzi di calicanto, e arrangiarci con dei semplici muri di calce. «È quello che ha scritto Marquez, però — continua Carmignani —. Così come ha scritto mi
raggi e non specchietti. La vecchia traduzione sceglieva l’esotizzazione, cioè usava l’espressione più simile, anche se fantasiosa o sbagliata; o i neologismi. Altro esempio: l’espressione desempedrarse, detta del cielo, è tradotta con fantasia dis
selciare, ma in spagnolo è comune e indica il liberarsi, in questo caso, del cielo dalle nuvole. Ma la cultura italiana di quel periodo non conosce questa narrazione e ha voglia di storie esotiche, e allora accentua aspetti che funzionano meglio per i lettori italiani. E il pavimento ajedrezado diventa scaccheggiato, mentre significa solo a scacchi. Poi l’uso di vocaboli come
cianciafuscole, ronfio, mondezzaio, alti e desueti, accentua il magico, ma si allontana dallo stile di Marquez. O porta a errori: se sulla tomba c’è un promontorio di fiori, promontorio è montagna, nulla a che fare con il senso marino che ha in italiano».
Ne La peste, le varianti sono evidenti fin dalla prima pagina: «Non ho mai una teoria, una poetica stabilita — illustra Yasmina Mélaouah —, se non conciliare l’aderenza alla voce dell’autore con la volontà di trovare un ritmo che funzioni in
I guai dell’esotizzazione «La vecchia versione usava soluzioni anche fantasiose: ma il “calicanto” in spagnolo è un materiale da costruzione, non un fiore»
La fedeltà al linguaggio «Nessuna strizzata d’occhi all’oggi, prendo il libro e lo faccio parlare in una lingua media, com’era medio il francese dell’autore»
italiano. Traduco Daniel Pennac e so come cambia l’atteggiamento nei confronti dei diversi autori. L’aderenza alle minime sfumature è importante, e con Camus (mi sono laureata su di lui) era difficile. La voce della Peste è quella di un narratore che parla a nome di una città, colui che mette a verbale, in qualche modo; per parlare così, se il tono vuole essere morale, deve essere quasi piatta e grigia, con nessuna concessione alla “strizzata d’occhio” al lettore. E Camus lo dice in più punti, scrive che quella storia ha un tono quasi notarile. La traduzione italiana aveva preso secondo me una piega involuta, pomposa. Io volevo restituire il distacco, il tono asciutto, tenere il rigore della voce narrante: che serve a controllare il pathos e il dolore, l’emozione che c’è nel sottotesto ed è tanta. Perché a volte l’emozione invece traspare e la senti, come se il narratore ne fosse sopraffatto, ed è millimetrica, impegnativa e bellissima».
Sempre in Camus: nella suddivisione delle frasi, nella punteggiatura, ci sono differenze evidenti fin dall’incipit tra le due traduzioni: chi è stato più fedele? «I miei punti fermi, i miei punti e virgola — risponde Mélaouah — sono rigorosa- mente quelli dell’autore; mentre era un tempo pratica diffusa prendersi la più assoluta libertà rispetto all’originale». Nel testo di Márquez, la cosa che salta più all’occhio è la scelta dei vocaboli. Risponde Carmignani: «Pensi, ne ha in numero minore l’originale di Márquez che la vecchia traduzione: invece le ripetizioni vanno rispettate. Inoltre lo scrittore posticipa sempre l’aggettivo al nome, mentre la traduzione non se ne cura. E Gabo mette sempre il focus della frase in fondo, mentre la vecchia traduzione normalizza la lettura. Quando traduci non basta usare un italiano letterario, ma vedere quale tipo di voce lui aveva costruito. Se all’inizio lo scrittore mette le virgole tra soggetto e verbo, perché è un tempo mitico, tu traduttore le devi mettere; se cominciano a scomparire nel finale, vanno lasciate scomparire, è il ritmo che accelera. Márquez stesso è intervenuto sul testo, con la correzione di molti aggettivi e un glossario che ha fissato molti significati. Poter usare il suo glossario è stato liberatorio, perché con un mondo grande come il Sudamerica i termini possono avere significati assai diversi».
Continua Mélaouah: «Però ripeto, nessuna strizzata d’occhio, nessun “prendiamo Camus e facciamolo parlare con la lingua di oggi”. No, prendiamo Camus e lo facciamo parlare in un italiano medio, com’era medio il francese che ha voluto usare, con una sua eleganza, ma non con un tono pomposo che sarebbe fuorviante, perché lo scrive lui stesso, “non abbiamo voluto usare abbellimenti”».
Ma non c’è meno magia, senza i palazzi di fiori e i cieli disselciati (anche se non c’erano nell’originale)? «Spero che il lettore — conclude Carmignani — non abbia bisogno d’esotismo. Márquez conosceva questo aspetto (vero anche per la traduzione in tedesco: ne è appena uscita una nuova firmata da Dagmar Ploetz) e si irrigidiva, non gli andava a genio. Diciamo che era una traduzione molto fantasiosa, con un dominio molto alto della lingua italiana, di un maestro. Ma spero che il lettore non continui a cercare l’esotico: oggi abbiamo una visione meno narcisistica e meno imperialistica, sono cambiate le strategie di mediazione culturale. E molti lettori giovani hanno avuto difficoltà a leggere la precedente versione, con quei continui slittamenti verso l’alto. Come diceva Sanguineti, i classici sono i libri continuamente ritradotti».
«Ci si affeziona alle traduzioni lette da ragazzi — conclude Mélaouah — un po’ come al cinema, tutti amiamo Cary Grant o Marilyn Monroe con le voci dei doppiatori italiani, hai voglia a dire: la vera voce di Cary Grant non è questa. All’inizio, quando fu ritradotta La montagna incan
tata e divenne magica, io amavo la vecchia versione, la amavo. Ma ora mi sono abituata alla nuova. Mi diceva una collega, anche lei alle prese con una ritraduzione: o scontenti il lettore o scontenti il critico, qualcuno un po’ lo scontenti. Per me però la cosa più importante è sempre l’aderenza al testo dell’autore».