Corriere della Sera - La Lettura
Peter Stein fa Shakespeare: Riccardo II è mia moglie
Maestri Peter Stein porta in scena a Prato una delle opere meno rappresentate di Shakespeare: «Svela i due corpi del signore, quello privato e quello istituzionale. Mi fa schifo vedere a teatro le stesse cose che vedo in tv»
Il Maestro avrà ottant’anni a ottobre ma a guardare come sale e scende di continuo gli scalini del palco del Teatro Metastasio non si direbbe. Su e giù, su e giù senza tregua. Se c’è da mostrare un gesto, da ritoccare una scena, da perfezionare una posizione o una luce, Peter Stein lascia di scatto la sua poltrona, sale e ridiscende. Un’energia paurosa. Senza contare che è reduce dai provini per scegliere il cast del Riccardo II e dal laboratorio di 5 settimane fatto a casa sua, una tenuta isolata nella campagna umbra. Un’opera di Shakespeare poco frequentata, che Stein sognava di mettere in scena da qualche decennio. E adesso è arrivato il momento, con attori per lo più giovani e con il ruolo del sovrano protagonista assegnato a Maddalena Crippa, sua moglie, che dice: «Un gran privilegio, sono grata agli dèi per avermi fatto incontrare Peter 28 anni fa e di avermi fatto resistere con lui». «Non è poco», aggiunge con un sorriso.
Peter Stein, perché il «Riccardo II»?
«Perché no? Se vogliamo tentare di fare teatro nel vecchio senso della parola, dobbiamo romperci i denti masticando i grandi testi. Ho sempre voluto fare il Riccardo II perché mi interessa specialmente il discorso politico nel teatro, il tema dell’organizzazione della società e delle sue diverse forme, i conflitti che nascono tra gli esseri umani, che se da un lato sono condannati a morire, dall’altro sono costretti a organizzarsi in una società. Naturalmente solo mettendolo in scena ho capito davvero che cosa c’è dentro».
Testo poco rappresentato. Perché?
«Perché forse è la più rituale e retorica delle opere di Shakespeare. Persino in Amleto, che è un testo molto tragico, ci sono elementi comici, per esempio la scena dei becchini. Invece qua il comico non c’è e il contrasto tipicamente shakespeariano è completamente assente: tutta la pièce è concentrata sul potere, cos’è il potere come potentato legittimo, che cos’è un signore nel suo rapporto con l’ordine politico e religioso. Riccardo viene deposto perché messo in discussione dal popolo e anche dalle classi dirigenti, il suo potere viene usurpato. È una questione estremamente politica, una transizione che riguarda anche la nostra democrazia quando si crea un vuoto o un attacco all’ordine esistente. Ma il testo propone anche la storia di un personaggio molto speciale».
Un personaggio estremamente ambiguo che passa dalla brutalità a un’apparente sottomissione, dall’arroganza alla prostrazione, per poi ritornare all’attacco.
«L’uomo di potere ha due corpi: il primo è quello privato, soggetto alle malattie, al dolore, agli umori, alla fame eccetera; il secondo è il corpo come rappresentazione istituzionale. Tra i due c ’è sempre un conflitto che è solo apparentemente teorico, in realtà basilare nella pratica politica. Riccardo tende a recitare diversi ruoli, è un attore, un re teatrale, che mette in scena il proprio declino, la sofferenza, le lacrime e il lamento di sentirsi usurpato da altri, e lo fa sempre attaccando. Amleto viene spesso paragonato a Riccardo II perché anche in lui c’è questo enorme elemento di attorialità: recita la sua pazzia ma recitandola non si capisce dove stia la vera pazzia e dove la pazzia inventata. La scena migliore del Riccardo II è quella del Parlamento, nel terzo atto, dove il sovrano si dice pronto a consegnare la corona per rendere chiaro che è lui la sola persona autorizzata a deporre se stesso».
Il suo rivale, Bolingbroke, è esattamente l’opposto: lucidità, equilibrio, determinazione…
«Bolingbroke tenta di essere un buon governante, è un vero politico con una dose di umiltà, recitata naturalmente, ma vede già all’orizzonte qualcuno che comincia a complottare contro di lui e alla fine, a confronto con il cadavere di Riccardo, ammette che quel sangue macchierà la sua ascesa e ricadrà su di lui. Infatti noi sappiamo che con Enrico IV la guerra civile ricomincerà. È molto bello quando Bolingbroke, il futuro Enrico IV, dice ai suoi: io non mi aspetto molto aiuto da voi e non ho nessuna ragione di esservi grato… Dobbiamo ricordarci che Riccardo II è anche una tragedia generazionale, una lotta tra giovani e vecchi: i vecchi sono contro Riccardo in quanto rappresentante di una gioventù sfrenata e rivoluzionaria. Ma alla fine sono quasi tutti la stessa marmaglia, cugini, zii, nipoti, padri, figli…».
Come si riflette tutta questa complessità nel linguaggio della tragedia?
«Sono temi che richiedono un registro sempre molto aulico. Sono di grande respiro anche le scene, che quasi mai si svolgono in interni ristretti: spazi ampi all’aperto, nella natura, il castello, l’aula del Parlamento… C’è una sola scena in casa e poi c’è il carcere, che fa da contrasto totale rispetto alla grandiosità generale. Ho scelto di lavorare sulla traduzione di Alessandro Serpieri perché è quella che rispetta più di tutte la costruzione retori-
ca complessa dell’originale. Altre sono più esplicative e verbose».
In che misura l’elemento linguistico, la costruzione della frase, è importante per lei?
«Io sono un interprete di testi. Nella mia carriera, per cinquant’anni, ho sempre lavorato su questo: sulle potenzialità costruttive della parola che vuole convincere, iperconvincere, sedurre, forzare…». Il «Riccardo II» è pieno di parole e quasi vuoto di azione…
«L’unica azione vera è l’assassinio del re. Bolingbroke raggiunge il suo scopo senza grande spargimento di sangue. All’inizio c’è un duello a morte che viene minacciato, ma subito interrotto e sostituito da un passaggio retorico sull’esilio. Anche per questo ho voluto una scenografia sgombra: un quadrato nero su bianco, quasi a scacchiera in cui le figure si muovono creando reciproche relazioni». Perché la scelta di fare recitare Riccardo da un’attrice?
«Da direttore del Festival di Salisburgo, nel 1995, avevo ospitato un Riccardo
II fatto da Deborah Warner con Fiona Show. In quell’occasione mi ero totalmente convinto che Maddalena potesse farlo: intanto è maturata ed è stato bene aspettare, adesso ha i mezzi per recitare questo ruolo molto complicato che richiede un’emotività pazzesca. Il femminile si addice a Riccardo II, ci sono in lui anche tratti omosessuali, basta pensare che si circonda di tre giovani favoriti chiaramente effeminati e di classe completamente diversa rispetto agli altri cortigiani. Riccardo ha un carattere variabile: all’inizio mette in scena la sua potenza assoluta, la sua impulsività, la sua brutalità anche contro l’alta nobiltà e lo sfruttamento del popolo con tasse insostenibili. E dopo aver esibito la sofferenza della deposizione e la sua debolezza, alla fine, prima di essere ammazzato, riprende la virilità di guerriero facendo fuori alcuni nemici quasi senza armi». Oggi che cosa ci può dire il Riccardo II?
«Io escludo sempre qualsiasi forma di attualizzazione: la modernità è già nel fatto che proponiamo quest’opera oggi con attori giovani che nella vita utilizzano l’iPhone e il computer. A me interessa capire le intenzioni dell’autore nel suo contesto e provare a vedere se può dirci qualcosa o no rispettando il testo. Questo è il punto: mettere in prospettiva un’opera, ben sapendo che non si tratta di una storia di oggi; lo stesso Shakespeare del resto ricostruisce vicende di qualche secolo prima. Ciò aumenta la coscienza che siamo parte di una storia, che la modernità non è un’isola buttata nel cosmo e perduta, anche la più sfrenata e idiota modernità sta sulle spalle della nostra storia. Del resto, se ritroviamo in testi antichi come il Riccardo II i problemi fondamentali della politica, della vita e della morte che ci riguardano ancora oggi, che bisogno c’è di modernizzare».
Non le piacerebbe lavorare su un testo che affronta direttamente la contemporaneità?
«Mi fa schifo vedere sul palcoscenico le stesse cose che tutti i giorni vedo in tv e leggo sui giornali. Se mi capitasse di raccontare qualcosa dell’oggi che supera la banalità del momento e il fiato corto dell’attualità, allora sarei contentissimo… Cechov ha scritto storie banali del suo tempo mostrando un’umanità che andava al di là: basta pensare al Giardino dei
ciliegi, dove l’abbattimento degli alberi è l’abbattimento di un’epoca… Ma io non sono uno scrittore, sono solo un interprete. E pur essendo con i piedi dentro la modernità da circa ottant’anni, pur avendo uno smartphone, tento disperatamente di non lasciarmi sopraffare e di avere una prospettiva della realtà più ampia e distanziata». Lei ha ribadito più volte di avere interessi filologici. Che cosa intende?
«Lavorare con le diverse lingue, sulla parola, è il mio più grande piacere: tedesco, italiano, francese, inglese, russo, anche se non lo parlo… Servono tutte a trasmettere una razionalità e un sentimento, non è difficile. Lavorando, sono estremamente rispettoso dell’opera, e solo mettendolo in scena posso capire un capolavoro del teatro. Agli studiosi shakespeariani che hanno scritto chilometri di bibliografia manca un elemento decisivo per cogliere il valore dell’opera: è il lavoro con l’attore».