Corriere della Sera - La Lettura
Eterno Penna: niente colpe, solo grazia
Raccolte tutte le opere sia in versi sia in prosa dello scrittore scomparso quarant’anni fa, con il recupero di inediti e testi rari e dispersi. Un lavoro importante che contribuisce a una rilettura consapevole di un autore immediato
Sandro Penna è il poeta più inespugnabile del Novecento italiano. La sua capacità di riferimento alla vita — quella vita nel cui nome si apre il suo canzoniere poetico — è così diretta, così immediata, che ogni volta che si parla della sua poesia si ha l’impressione di fargli uno sgarbo. Il rischio è di appesantire, di filtrare e complicare, d’immiserire. È il poeta che più di ogni altro dovrebbe essere letto e basta. Ma è vero che questa stessa constatazione, che mi trovo per altro a ripetere come ultimo di una lunga trafila, possiede di per sé un valore ermeneutico. E infatti la sua bibliografia critica è ricca di pagine eccellenti scritte appunto sotto la pressione di un possibile travisamento. Non tanto per comprendere Penna, dunque, quanto per lasciare che Penna sia Penna. Penso ovviamente, primi fra tutti, ad alcuni interventi del suo critico più importante, Cesare Garboli.
Strada facendo non pochi termini e nozioni che lo riguardano sono divenuti persino proverbiali: naturalezza, grazia, eleganza, classicità (istintiva), desiderio, diversità, mostruosità, indifferenza (alla storia, alla morale), atemporalità, assolutezza. Tutto vero, nella sostanza, a patto di assumere questi concetti non come conclusioni, e tanto meno come ipostasi, bensì come problemi aperti.
È esattamente quello che accade con una nuova edizione delle poesie e delle prose di Penna, che si propone ora come l’opera che forse più di ogni altra consente di valutare la consistenza delle principali acquisizioni della sua storia critica. Il volume a cui mi riferisco è il Meridiano Mondadori dedicato allo scrittore perugino (nato nel 1906, ha abitato a Roma dalla fine degli anni Venti; l’altro luogo importante della sua vita è Porto San Giorgio): Poesie, prose e diari, a cura e con un saggio introduttivo di Roberto Deidier, mentre la cronologia è firmata da Elio Pecora. Ed è presto detto, perché Deidier e Pecora sono probabilmente i maggiori conoscitori dell’opera e della figura di Penna, tant’è che non ci si poteva auspicare una collaborazione migliore. Vi si trova raccolta la sua intera opera in versi e in prosa edita in volume, nonché un numero piuttosto consistente di testi inediti, rari o dispersi. In particolare, le poesie vengono proposte in due diverse sezioni: la prima riproduce le poesie scelte e ordinate dall’autore stesso nel 1973 (si tratta dunque della sua raccolta poetica più autorevole, a cui viene così riconosciuta l’importanza che merita), mentre la seconda, «Poesie 1922-1976», presenta i testi editi esclusi dalla scelta precedente, nonché gli inediti e i dispersi tutti disposti in ordine cronologico.
Ma torniamo al punto. Tutto in questo Meridiano — introduzione, esame dei libri e dei manoscritti, note ai testi, la stessa cronologia (che in realtà è una biografia eccellente) — concorre a riportare e a comprendere Penna all’interno del suo tempo. Eppure, per l’altro verso, ogni legame, ogni documento, ogni reperto, porta a rimarcare non tanto l’assolutezza della sua poesia, quanto — ed è una cosa diversa — la prospettiva assoluta, radicalmente estranea alla storia, a cui questa poesia dà adito. Ricordando il titolo di un libro di Saba, si può dire che questa accuratissima storia e cronistoria del canzoniere penniano racconti le premesse e le vie per l’affermazione di una prospettiva non storica ma assoluta. Lo scarto di Penna, che non è mai stilistico, da tutto ciò che lo circonda, infatti, risulta tanto più forte quanto più la filologia (molto precisa e mai prevaricante) lo inchioda al suo tempo, alla concretezza del fare, alle questioni tecniche, alle procedure compositive. Tanto più nel caso del divino Penna, il pericolo era di soffocare i testi poetici; e invece è accaduto l’esatto contrario. La rima tra poesia e filologia, insomma, è riuscita benissimo.
Se si pensa che, come spiega Deidier, il problema fondamentale dell’officina penniana è quello della datazione dei testi, si comprenderà subito come le que- stioni di cronologia abbiano qui una ricaduta immediata sul piano critico. Penna concepiva i suoi libri come una semplice successione di testi isolati. Il libro come entità autonomamente significante per lui in pratica non aveva realtà. Tendeva inoltre a postdatare i componimenti, così da corroborare l’idea di una poesia senza sviluppo interno, sempre fedele a se stessa e senza tempo, ma immersa invece in un eterno presente. Invariabile il desiderio per i giovinetti e i ragazzi, invariabili gli scenari, il riferimento agli animali, al paesaggio, alla natura, al tempo atmosferico, ai giorni, alle ore, agli attimi, e invariabili ancora il tono, la lingua, i mezzi e le tecniche di composizione (ad esempio l’avvicendamento tra descrizione e clausola sapienziale). E in effetti, se si affiancano la prima e l’ultima poesia del suo canzoniere si ritrovano esattamente gli stessi elementi e lo stesso modo di scrivere, salvo che la prima è un autentico manifesto di poetica e l’ultima invece un congedo. Ma in realtà nulla è cambiato. «La vita... è ricordarsi»... Tra il ricordo di un «risveglio triste» e il ricordo della «liberazione improvvisa» alla vista di un «marinaio giovane», nel componimento che apre le Poesie l’alternanza fondamentale tra epifania del desiderio e decadimento dei sensi, tra gioia e tristezza, tra atonia e riviviscenza, appare già perfettamente definita.
Ma che cos’è l’«anima» a cui il poeta continuamente parla nei suoi versi? A chi appartiene l’«animula» a cui Penna da ultimo ancora si rivolge nella sua traduzione della celebre poesia dell’imperatore Adriano? Si potrebbe fare uno studio delle attribuzioni che via via le vengono riconosciute: stanca e dolente, forte, libera, fragile e sbigottita, triste e calma, riposata, selvaggia, puntigliosa, bella... Deidier sottolinea giustamente il legame con la figura edenica del puer aeternus, e dunque con Hölderlin, Keats, Leopardi (amatissimo), Pascoli, Saba, ma anche Rimbaud, Nietzsche, Proust.
È il dialogo con un’entità antica e primitiva, precedente la caduta nella storia e nella cultura, indifferente ai riti dell’esistenza e dell’ideologia, anche di quella omosessuale, si deve dire, che semmai apre la strada alla voce di un’alterità più profonda, quasi aliena e assolutamente elitista (si tratta dunque di una diversità più sostanziale, antropologica). «Il mare è tutto azzurro./ Il mare è tutto calmo./ Nel cuore è quasi un urlo/ di gioia. E tutto è calmo»; o ancora: «Ecco: dirò questa sera/ in musica di parole (non so, non so, chi le detta/ ora a me stesso) dirò/ gli amori della mia anima per te, divina Natura». Nei suoi versi Walt Whitman lo definisce real me o me myself, e la sua voce quella di un barbarico yawp. Bene, credo che Penna abbia parlato esclusivamente con questo stesso io impersonale, casto e insieme selvaggio, con questa personalità né maschile né femminile antecedente l’io biografico, psicologico, quotidiano. La sua poesia è il resoconto, o meglio la memoria della sua assenza e del suo avvento improvviso. Il poeta ne ascolta il canto, la accarezza e blandisce, la sente venire e poi andarsene, ne osserva impotente e stupito l’affermazione, il momento in cui questo straniero sovranamente s’impone e governa. Penna ne prende semplicemente atto, proprio come noi della sua poesia. Non c’è colpa, no, soltanto grazia.