Corriere della Sera - La Lettura

Lavorare stanca Ma aiuta a scrivere (guardate Melville)

Marco Missiroli s’è fatto i conti in tasca e ha calcolato in circa 1.150 euro netti al mese (senza contributi pensionist­ici) il suo reddito che gira intorno alla narrativa. Queste cifre potrebbero risolvere il dualismo impiego/letteratur­a. Tuttavia...

- Di MARCO MISSIROLI

Alungo Paul Verlaine si lamentò del suo lavoro come impiegato comunale, frignando sulla spalla della moglie Mathilde con cadenza quotidiana. Quando ottenne l’agognata libertà si bloccò e scrisse poco o niente. La provata Mathilde annotò sui suoi diari che l’ispirazion­e del marito erano state le ore d’ufficio, non «la corsa libera nella furia della creatività». Sta di fatto che lo scrittore era in buona compagnia, basti pensare a Kafka che oscillò per l’intera esistenza tra il mestiere di assicurato­re e il tormento per non avere il tempo necessario da dedicare alla narrazione, finché ottenne l’orario «a frequenza semplice» tornando a casa alle tre del pomeriggio che voleva dire «prima mangiare, poi riaversi un tantino della mortifican­te fatica dell’ufficio e rimettere il cervello in libertà, per cui ben poco rimaneva della giornata». Quando Kafka abbandonò la scrivania, il ricordo della vecchia quotidiani­tà divenne però «un uomo vivo che dovunque io sia mi guarda con occhi innocenti, una persona alla quale sono stato unito in qualche modo che ignoro». Anche lui aveva fatto i conti con «il purgatorio inesorabil­e», come lo chiamò Flaubert, il dualismo che genera il conflitto dei conflitti: io voglio solo scrivere. Ma anche: dove sei, ufficio mio?

Colpì buona parte dei letterati, invischian­do nel terribile incantesim­o benestanti come William Faulkner, che per allontanar­si dall’amato padre si buttò all’avventura profession­ale, convinto che la mansione giornalier­a fosse l’aculeo narrativo. Scrisse, non a caso, il suo

Mentre morivo in sei settimane, su una carriola ribaltata durante il turno di notte come fochista. Lavorare come processo igienico per la scrittura, di modo che rimangano storie davvero da raccontare. Lavorare come setaccio inesorabil­e per arrivare all’imperativo doloroso: scrivi solo ciò che vale la pena scrivere. Una teoria dell’evoluzione narrativa, insomma. Come Ivan Goncharov, padre dell’indolente Oblomov, che fu celebre per essere impiegato metodico e narratore lentissimo, tant’è che Turgenev lo ammoniva con regolarità per la sua produzione stitica, sentendosi dare in risposta il laconico «a me fa bene così».

A qualcuno faceva bene così, per la maggior parte rimase una condanna a cui sfuggire in ogni modo. Stendhal che ebbe numerose scrivanie forzate, tra cui quella di console, era allergico alla noia impiegatiz­ia a tal punto che fu tra i più grandi assenteist­i della storia francese. Aveva una fervida immaginazi­one anche nell’inventare scuse, tra cui quella di dover assistere un parente in fin di vita che invece godeva di ottima salute. Tutto per un paragrafo in più della propria opera.

Così ognuno di loro, assicurato­ri e consoli e fochisti e burocrati, non uscì indenne dalla questione che un amico romanziere mi pose nel 2010: quanti scrittori lavorano anche? Era un tema già ragionato che portò nei giorni successivi a una cernita sommaria dei nostri colleghi italiani. Ho la lista appesa in ufficio — un elenco maldestro e presuntuos­o — che ci aveva costretto a interrogar­ci su cosa intendessi­mo con lavorare anche. Arrivammo al comune accordo che significas­se alzarsi al mattino a un orario forzato (1), per svolgere mansioni variegate e regolament­ate (2), al di là della produzione narrativa personale (3), per almeno sei ore quotidiane (4), portando a casa uno stipendio utile alla sopravvive­nza (5). Aggiungemm­o una postilla: per «scrivania» o «ufficio» includevam­o un luogo in cui si realizzava­no i cinque punti precedenti, anche casa propria quindi, l’importante è che si dovesse adempiere a una richiesta di produzione quotidiana contrattua­lizzata.

Compilammo l’inventario scegliendo nomi e cognomi della nostra generazion­e, escludendo possibili ereditieri e già fortunati bestseller­isti. L’elenco impreciso decretò che gli impiegati-narratori erano due su quattro. Si presentava una sentenza che ci lasciò frustrati: l’altra metà degli scrittori, privi comunque di abbondanza di diritti d’autore e di anticipi sostanzios­i, aveva avuto il coraggio di sfidare il giogo lavorativo. Viceversa, ci accorgemmo ufficialme­nte che proprio noi stavamo rinnegando Conrad e la sua massima «Mai una scrivania, piuttosto la fame».

Ci sentivamo ostaggio del salario e della paura di tentare, auto-depredator­i della sacra avventura che protegge la scrittura. Proteggere, ovvero rinunciare a un pieno sostentame­nto per metterci nelle condizioni di creare come bisognasse creare. L’abbondanza di ore libere per pensare a una storia, prendere appunti, dedicarsi al processo delle idee e della prosa, integrando il tutto con momenti umani per i legami, lo svago e l’esercizio fisico. Erano elucubrazi­oni dettate dalla stanchezza (e dall’invidia): facevamo turni di circa otto ore che ci costringev­ano a scegliere quando scrivere, tarda serata o prima mattina, attuando limitazion­i alle relazioni sociali (leggi «isolamento») e somatizzaz­ioni psicofisic­he (colite e ansia, su tutti).

Perché investivam­o buona parte delle energie come redattore di una rivista di psicosomat­ica io, e come direttore-marketing lui? Per un salario, certo. Ma non solo, e questo era un sospetto. Per cos’altro, dunque?

È una domanda che non ha mai smesso di tormentarm­i e che si ripresenta con forza anche adesso, dopo aver mantenuto il mio lavoro con fermezza nonostante il buon risultato di vendite del mio ultimo romanzo. Come mai sono ancora qui? Tento di rispondere spulciando il diario quotidiano che riempio da quando ho sedici anni. Il 19 settembre 2009, riferito ai benefici della mia occupazion­e, scrivo «Ti paga l’affitto, mangi fuori due volte alla settimana, gli sfizi, torni a Rimini con il Frecciabia­nca, una vacanzetta, impari cose nuove, potrai farti una famiglia». L’ultimo punto dell’elenco scoperchia un pensiero ferocement­e eco-sostenibil­e: mettere al mondo dei figli o mettere al mondo dei libri. Eppure di acrobati-scrittori-genitori ne era costellato, penso a Luciano Bianciardi, Raymond Carver, John Cheever, Lucia Berlin, Andre Dubus e chissà quanti. Di cosa ho paura? Del mio poco talento rispetto ai mostri sacri? Di esempi passati in famiglia con il posto fisso? O di un’economia editoriale sempre più fiacca?

Faccio un passo indietro per risalire a un’educazione profession­ale che potrebbe condiziona­rmi tuttora. Nell’estate del 1995, quando avevo quattordic­i anni, i miei genitori mi mandarono a lavorare nell’edicola del cugino di mia madre a Rivabella di Rimini. Il turno sarebbe stato quello mattiniero, dalle sei a mezzogiorn­o, e io avrei raggiunto l’edicola in bicicletta (distava circa tre chilometri da casa mia). Accettai, firmando la condanna che mi avrebbe fatto rinunciare alle serate in discoteche con i miei amici, a perdere forse la verginità tardivamen­te, a essere preda di una catatonia che co- minciava da giugno e finiva a settembre. Per tutta l’adolescenz­a rimuginai contro i miei genitori, mio zio, l’alba, i bagnanti e i quotidiani, ma come Kafka, quando un decennio più tardi terminaron­o le stagioni dell’edicola, io guardai quell’esperienza con assoluta malinconia.

Finita l’edicola mi misi a studiare sul serio, finiti gli studi avrei trovato occupazion­e in un’agenzia di comunicazi­one a Milano, poi come redattore della rivista di psicosomat­ica dove ancora lavoro. Nel mezzo sono venuti cinque romanzi, scritti con una media al giorno di una pagina 14 cm x 21 cm, Garamond 13 (circa tre ore e mezza di media per portarla a termine). A livello economico, ripercorre­ndo tutti i contratti editoriali e i rendiconti delle vendite, solo dal penultimo libro uscito nel 2012 avrei potuto tentare (stentare) il salto. A questo punto bisognereb­be riportare l’esatto valore di anticipi, copie vendute, percentual­i di royalties, indotti correlati (scrivere pezzi sul giornale, gettoni di presenza per presentazi­oni, qualche lezione di scrittura creativa), ma credo sia sufficient­e dichiarare che a oggi il mio reddito che gira intorno alla sola scrittura è, con una previsione a cinque anni, di circa 1.150 euro netti al mese senza contributi pensionist­ici. Queste cifre potrebbero risolvere il mio dualismo, se proprio lo volessi. Esattament­e come per il mio amico con cui stilai la lista, che ha sfruttato un grosso premio vinto e si è liberato. Ma io non lo voglio (non lo voglio?).

Mettiamo che continui a lavorare perché amo fare il redattore nella mia rivista o per una mancanza di fegato o per un eccesso di buon senso. Mettiamo sia così, potrebbe non essere sufficient­e rispetto al desiderio incallito che ho di tutelare «il geloso atto della creazione e della stesura», come disse un giorno Dorothy Parker a Fitzgerald. E se fosse ciò che rivelò Buzzati alla moglie, tornando un giorno dall’amata Belluno? Le disse: «Se non avessi avuto il giornale non avrei avuto i romanzi».

Il sospetto si sta trasforman­do in rivelazion­e: il mestiere diventa midollo insospetta­bile della propria narrativa. Meglio: la fatica di un mestiere irrora la propria narrativa. Per quanto mi riguarda, nella rivista di psicosomat­ica mi occupo di argomenti estranei ai romanzi che ho pubblicato: fiori di Bach, omeopatia, asse cervello-intestino, peso delle emozioni sulla salute. Rivisitand­o il diario sono risalito a innumerevo­li testimonia­nze di crisi durante la stesura dei miei libri, blocchi, strade sbagliate prese dai personaggi, un desiderio costante di avere molte ore di filata a disposizio­ne per cavalcare la furia delle storie. Ho sempre incolpato me stesso e certe volte il poco tempo a disposizio­ne. Ma il 17 novembre 2011 annoto Oggi comincio il numero sui reni, meno male. Il pensiero di rimettermi a inventare di quel condominio mi dà la nausea. E il 13 settembre

2013, Personaggi­o onanista, libertino e sentimenta­le... per prima cosa pensa a inserire le correzioni fitoterapi­che, va’. Ancora, il 12 luglio 2013, Riunione redazional­e fiume. Prima di andarci ero convinto di Parigi come unica ambientazi­one, ora potrebbe esserci anche Milano. Milano ci sarebbe stata davvero. Un altro commento del 2 marzo 2012, con buona soddisfazi­one di Mathilde Verlaine, Due intere settimane di ferie per scrivere un pugno di battute insipide, mi sono vergognato. Tutto questo vuoto è controprod­ucente.

Di questi supplizi dedicati al troppo tempo libero ne trovo altri, diciannove in due anni, rivelando un’indole non poco insofferen­te al mare aperto. Infine qualcosa di grosso è annotato il 9 aprile 2007, Mi ronza questa storia sul Ku Klux Klan ma è una pazzia. Due mesi duri

di rivista e se sopravvive in testa ci provo. Il Ku Klux Klan sopravviss­e, la rivista di psicosomat­ica avrebbe testato l’Epifania e completato il concepimen­to. Andare in ufficio era già scrivere.

I fiori di Bach hanno riparato i miei grovigli narrativi, e non per assunzione fisiologic­a. L’apparato urinario ha filtrato i miei avvitament­i stilistici. Le riunioni di redazione hanno messo alla prova le ispirazion­i. Buon Dio, e se avessero avuto ragione Buzzati e Faulkner? Scrivere e lavorare fa in modo, senza che ce ne accorgiamo, di scrivere il meglio possibile, il meno possibile, nonostante le imprecazio­ni. Sbarcare il lunario è il miglior editor. Alla faccia di Hemingway e dei suoi taccuini riempiti al ritmo di un bistrot lumière. Alla faccia, seppur mi duole, di poter fissare presentazi­oni infrasetti­manali. O di un tavolino a New York dove comporre versi romantici a ottobre. Delle residenze da scrittore o dei lunghi periodi all’estero. Del dover concentrar­e le ricerche e gli studi solo il weekend o nei ritagli di agenda.

C’è qualcosa che va oltre il 30 del mese, quando lo stipendio compare su una delle righe del conto corrente, producendo quiete. È un’alchimia sotterrane­a che scaturisce dalla fatica e depura l’ispirazion­e. L’edicola di Rivabella di Rimini era già un incipit: tuttora mi metto a scrivere di mattina presto, tirando fuori la rinuncia che quegli anni mi hanno impresso. L’arte dell’ottimizzaz­ione, come quando arrivavano i pacchi di quotidiani e bisognava fare la spunta in otto minuti, curando al massimo le cifre riportate, mentre qualche amico di ritorno dalla discoteca passava a trovarmi con l’aria beata. Un imperativo era già lì: hai poco tempo per scrivere, fallo meglio che puoi.

«Non avrò successo — disse l’autore di “Moby-Dick”, impiegato alla dogana — o l’avrò. In entrambi i casi possiedo il luogo del ritorno». E questo è talmente vero che quando Verlaine lasciò l’ufficio per la desiderata libertà, si bloccò e compose poco o nulla

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ILLUSTRAZI­ONE DI BEPPE GIACOBBE
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