Corriere della Sera - La Lettura
... serie tv in Alto Adige con storie low cost: si parte con 10 mila euro
Reportage Sono le fucine della nuova creatività. Sceneggiatori e produttori affermati si trovano in un hotel di montagna con un gruppo di giovani italiani e tedeschi per insegnare come tenere alta la tensione anche senza budget. E nella metropoli globale
Sul tavolo c’è un libro. Laura Tamoj, 25 anni di Berlino ma nata a Bad Honnef, deve incontrare John Yorke, story consultant, produttore ( The Missing) e fondatore della Bbc Writer’s Academy. Laura sta lavorando alla struttura della sua serie tv. Quale sarà la prossima mossa di Tom? «Sto cercando di capire che cosa può fare una persona a cui hanno sparato a una gamba». Raccoglie il libro e lo mostra a Yorke: Violence. A writer’s guide di Rory Miller. Tom è l’antagonista di Zero, serie tv ambientata in una valle tra le Alpi gettata in un inverno irreversibile da una catastrofe nucleare: 10 episodi da 10 minuti pensati per un’app di streaming per smartphone come Fullscreen.
È uno dei quattro progetti presentati nel programma di mentoring «High Concept, Low Budget» di Racconti, laboratorio di sceneggiatura creato nel 2011 da Idm Film Commission dell’Alto Adige e giunto alla sesta edizione. All’inizio era dedicato allo sviluppo di sceneggiature per il cinema (il film del 2016 Fräulein di Cristina Carone è nato qui nel 2011). «Dal secondo anno — spiega a “la Lettura” la curatrice San dr aBuchta— ci siamo orientati verso le serie tv». A metà giugno Racconti ha riunito per una settimana all’hotel Kematen, sull’altopiano del Renon in Alto Adige, dieci sceneggiatori da Italia e Germania ed esperti internazionali.
Si erano già incontrati all’inizio di maggio, a Costalovara, per la prima fase del laboratorio e hanno seguito due percorsi paralleli. Cinque di loro — Alexander Frank (Francoforte), Elena Lyubarskaya (russa ma di base a Berlino), Ivan Pavlovic (nato a Tuzla in Bosnia-Erzegovina ma cresciuto in Italia), Anita Rivaroli (Roma) e Raquel Stern (americana di Berlino) — si sono riuniti in una writers’ room guidata da Christian Jeltsch (autore di gialli tv come Tatort, serie poliziesca tedesca in onda dal 1970) e diretta dalla casa di produzione Ffp New Media. Il gruppo ha lavorato in una stanza con le pareti tappezzate da foglietti colorati pieni di annota- zioni su personaggi, tema e trama, per strutturare i dieci episodi di un conspiracy thriller. In una prospettiva transmediale — lo slogan di Racconti #6 è Tv of tomorrow, la tv di domani — saranno accompagnati da una web serie documentaria creata con la consulenza di David Varela ( Sherlock: The Network), esperto di storytelling digitale.
Il percorso di mentoring ha coinvolto invece sceneggiatori che hanno presentato idee originali. Narrazioni di qualità da realizzare con un budget ridotto che potrebbero essere ambientate proprio in Alto Adige. «Il termine low budget può variare da Paese a Paese, quindi non abbiamo indicato un range definito. Si tratta di una sfida creativa», aggiunge Buchta, perché «a ogni passaggio gli autori dovranno chiedersi: di quanti set ho veramente bisogno, quante scene d’azione posso inserire? E così via». Il modello sono serie come la belga Salamander (2012) o le israeliane Hatufim (la cui prima stagione è costata, ha dichiarato il creatore Gideon Raff, quanto l’episodio pilota della versione Usa Homeland) e Fauda (2015) prodotta con un budget stimato di circa 24 mila euro( acquistata da Netflix) da MariaFe ldman, ideatrice anche di False Flag (2015). Feldman è una dei tre esperti, con il produttore francese Harold Valentin e John Yorke, che hanno guidato gli sceneggiatori. «Per False Flag avevamo 10 mila euro per sviluppare il pilot — dice — e 30 mila euro per i 3 episodi successivi. Con un budget ridotto devi porre ancora più attenzione sulla storia e il lavoro inizia dalla sceneggiatura. L’azione è una scelta efficace, ma costosa. La soluzione può arrivare da un dialogo ben congegnato». Quindi: «Concentratevi sulla scrittura».
E così Laura Tamoj ha cercato alternative a scene d’azione che avrebbero coinvolto degli stuntman e rinunciato ai cavalli che avrebbe voluto inserire tra i superstiti del suo scenario post-apocalittico. Ha seguito i consigli di John Yorke su come strutturare la narrazione e su come capire se un episodio funziona. Basta poter rispondere a 10 domande: è la storia di chi? Di che cosa ha bisogno? Qual è l’incidente scatenante? Che cosa desiderano i personaggi? Quali sono gli ostacoli sul loro percorso? Cos’è in gioco? Perché dovrebbe interessarci? Che cosa imparano? Come e perché? Come finisce? «Il segreto è limitare — spiega John Yorke —. Un set, al massimo due o tre, da poter riutilizzare. Un cast principale che ritorna ogni settimana, poche guest star. E niente storie in costume». Ancora una volta torna l’importanza della scrittura: «Ogni parola deve far desiderare allo spettatore di ascoltare la successiva. Per farlo bisogna unire elementi diversi: caratterizzazione dei personaggi, struttura, empatia. Ma nulla funziona se non si genera curiosità». I progetti sono cambiati nel corso di Racconti facendo tesoro dei consigli degli
esperti. Happy Hearts & Smiling Faces di
Joachim Braner (Berlino Ovest, 1971) è una sit-com: «Ma il titolo cambierà di sicuro». La storia di 5 pensionati che dalla Germania si trasferiscono in una più economica casa condivisa nella Repubblica Ceca dove vivono una serie di disavventure. «C’è una location principale. Niente folle, niente effetti speciali. Mi sono concentrato sui personaggi. All’inizio pensavo di aprire il pilot con un flashback negli anni Ottanta ma poi ho rinunciato. E ho eliminato alcuni personaggi secondari».
Anche Laura Grimaldi (Roma, 1988) e Pietro Seghetti (Roma, 1990) hanno seguito il motto less is better riducendo di 4 episodi la loro Wolftrap: «Il low budget è consentito dall’unità di spazio e tempo.
Wolftrap copre l’arco di pochi giorni nella valle tra le montagne in cui sono nate le protagoniste (due sorelle separate per 18 anni dal rapimento della più giovane, ndr) e quasi per metà si svolge tra le pareti di un bunker». Hanno approfondito il passato delle sorelle e cercato di rendere la «detenzione» il meno possibile di genere. Bloody Mary è invece il progetto di Francesca De Lisi (Caserta, 1984) firmato con Dario Bonamin e Federico Gnesini: la storia di Maria De Santis (Bloody Mary), una brillante poliziotta che per infiltrarsi nel clan criminale dei Mazzaperro, a Rimini, si propone come tata dei pestiferi figli del boss. «Abbiamo compattato l’azione in un’unica location principale: casa Mazzaperro. Un espediente che permette di chiarire meglio la fusione tra componente familiare e crime ».
Dopo due settimane di confronti, di discussioni e passeggiate mattutine tra i boschi, «gli sceneggiatori hanno definito la storia che vogliono narrare», conclude Buchta. Ora prosegue il lavoro personale. Per prepararsi all’incontro con il «mercato» a ottobre durante l’evento finale.
Con il programma «Racconti» si impara a modellare l’immaginario sul ritmo di serie pensate per la «tv di domani». Spiega la curatrice Sandra Buchta: «Gli autori devono chiedersi di quanti set hanno veramente bisogno, quante scene d’azione inserire. Una sfida». A Manhattan, invece, nelle due scuole volute da maestri come Balanchine e Alvin Ailey cadono le barriere stilistiche del passato e si lancia chi è pronto, anche se giovane. Il colore della pelle o la nazionalità non contano: una borsa di studio sostiene l’ascesa del messinese Davide Riccardo