Corriere della Sera - La Lettura
Diari scritti e disegnati di Peter Handke
Lo scrittore austriaco Peter Handke tiene da sempre diari che chiama «Journal». Lì annota i propri pensieri e traccia illustrazioni che tuttavia — confida a «la Lettura» — esita «a definire disegni» Dice: «Il mio è più che altro un processo, un percorso:
«Giro il mio mantra: la matita nel temperino », annota P eter Handke in una riga del suo diario, il suo Journal, come lui stesso chiama il taccuino in cui da anni, da sempre, pratica l’esercizio di un’attenzione giornaliera. Basta una riga, un gesto, che si compie inequivocabilmente come un rito, a dare il senso di quanto segreto e insieme solenne, intimo e insieme universale, silenzioso e tuttavia carico di energia sia il momento in cui lo scrittore si prende cura del suo inseparabile utensile, affila la sua arma — oggetto potente quanto innocente —, prepara il suo strumento di scrittura e di cattura.
Sono naturalmente tutte incruente le sfide che affronterà con la matita in pugno, quell’arma così sottile e acuminata non farà vittime né la sua impresa punterà a riportare vittorie o trofei. Eppure, a noi che lo leggiamo da anni avvertendo sulle sue pagine la tensione viva della parola che aspira a far presa sul mondo, Handke appare come una figura eroica. Tanto più là dove l’intonazione della sua scrittura si fa più assorta, dubitativa, meditativa — nella serie dei Versuche, i cosiddetti saggi, o «assaggi», concepiti più propriamente uno dopo l’altro come dei «tentativi»: Il saggio sulla stanchezza, sul juke-box, sulla giornata riuscita, sul luogo tranquillo, sul cercatore di funghi —; dove la sua prosa cede al ritmo del verso e la voce si arrende al canto — l’incomparabile Canto alla durata —; dove la narrazione diventa introspezione — Il mio anno nella baia di nessuno, L’ora del vero sentire, Breve lettera del lungo addio e l’ indimenticabile Infelicità senza desideri —; dove il dramma rallenta l’ azione e invita piuttosto a una lettura che scatena l’immaginazione — Ancora tempesta, Aranjuez —; o dove la concentrazione rasenta l’ascesi e regala momenti di folgorante illuminazione: nei diari, tutti, da Il peso del mondo agli ultimi non ancora tradotti in italiano, compilati, come recita il titolo del prezioso volume che li raccoglie, Di notte, davanti alla parete su cui gioca l’ombra degli alberi.
Tanti generi letterari attraversati avventurosamente — cioè con slancio, spirito di avventura, grandioso dispendio di intelligenza e forza creativa — da un solo poeta, tra i più grandi del nostro tempo, il quale però è talmente timido, menschenscheu, schivo, ritroso, e consapevole della tremenda grandezza della poesia, che rifiuta di definirsi tale.
«Non sono un poeta», ribadisce ancora una volta quando «la Lettura» lo sente al telefono alla vigilia del suo prossimo arrivo in Italia dove, nel contesto del festival «agri-rock» Collisioni, eccezionalmente incontrerà il pubblico nella cittadina piemontese di Barolo, e all’indomani dell’inaugurazione a Berlino della mostra dei suoi disegni, esposti per la prima volta alla Galerie Friese fino al 29 luglio. «Sono uno scrittore epico», ribatte alzando il tiro rispetto alla elevatezza che attribuisce all’arte letteraria. Poi, correggendo l’enfasi, o calcandola con ironia per burlarsi di se stesso — Handke è un uomo dotato di un amabile senso dell’umorismo, sia detto per sfatare la fama di orso burbero che si è fatto per via della sua riluttanza a farsi raggiungere dei media e del mondo della comunicazione — precisa: «Sono un epico lirico incline a svolte drammatiche».
La definizione non potrebbe essere più azzeccata, non tanto per noi che vediamo Peter Handke come un eroe, quanto per lui, che nutre un’autentica venerazione per la serietà della letteratura, che ha modelli altissimi, che convive con i classici — da Goethe a Omero — e che tiene aperta sulla scrivania la versione originale dell’Odissea, letta e riletta in greco, fitta di note a margine, appunti, glosse anno- tate a matita dando forma ai pensieri che sorgono sull’onda degli esametri dattilici.
Quella matita, infaticabile, non smette un attimo di lasciare le sue tracce sul campo. E che dalla sua punta, insieme all’intrico delle parole che danno forma ai pensieri, insieme al groviglio della scrittura che dà il ritmo alla giornata e alla vita, intrecciate a parole e scrittura, inseparabili da esse, sorgano figure, immagini, «disegni», è perfettamente in linea con l’approccio artistico ed esistenziale di Peter Handke. «Approccio», cioè avvicinamento, un accostarsi vigile, guardingo, tipico di chi «fa la posta», esce a caccia, va in cerca: di funghi o di tutto ciò che la natura — anche la natura umana — può rivelargli come una sorpresa.
Estratti dai suoi manoscritti, letteralmente ritagliati dai suoi quaderni, minuscoli, grandi poco più di un francobollo, o di un ex libris, eppure fitti di dettagli, densi di sfumature, raffinati come miniature, anche questi «disegni» riflettono la linea complicata, problematica, disposta a scendere incisiva nel profondo, dell’opera di Handke.
Le virgolette sono di rigore: Handke stesso ha scelto di apporle come una riserva alla parola Zeichnungen che intitola l’esposizione berlinese. «Esiterei a definirli “disegni” — ci spiega — così come io non voglio definirmi un disegnatore, con il sostantivo e (come vuole la lingua tedesca anche per il nome comune, ndr) con la lettera maiuscola. È più che altro un processo, un percorso: una linea si aggiunge all’altra e io via via capisco dove mettere l’accento, come formare la figura. Picasso disse una volta di Cézanne che già il suo primo segno, la prima pennellata sulla tela, era un capolavoro. Per me è il contrario. All’inizio è tutto falso, tutto sbagliato. Procedo per tentativi e solo piano piano l’immagine prende forma. Un po’ come fanno i poliziotti quando cercano di figurarsi un criminale, lavorano sugli indizi e a poco a poco completa-