Corriere della Sera - La Lettura
L’orgogliosa rinascita dell’Isola di Pasqua
Rinascite Nota come caso di declino rovinoso, dovuto anche all’influenza coloniale, Rapa Nui si è invece inserita con successo nei processi globali grazie al turismo e alla diaspora. E ora rilancia la sua identità polinesiana Alle origini della svolta Due fattori si sono rivelati cruciali per innescare il cambiamento: la costruzione di un grande aeroporto e la concessione agli indigeni della cittadinanza cilena
L’Isola di Pasqua è un iperluogo del nostro immaginario: puntino invisibile nella cartografia del Pacifico, è come se la sua superficie ridotta (160 kmq, molto più piccola dell’Elba) fosse stata dilatata a dismisura dal fascino delle grandi statue (i moai), dai racconti del rito di iniziazione dell’«uomo-uccello» ( tagata manu) e soprattutto dalla sua parabola storica. L’isola dei giganti di pietra sarebbe andata incontro a una decadenza dovuta alla dissennata azione dell’uomo: l’isolamento e la deforestazione avrebbero compromesso il clima e la produttività del suolo, con una conseguente catastrofe ambientale. Nell’attuale epoca del riscaldamento globale e di inquietanti scenari della «fine», Rapa Nui (altro nome con cui è nota l’isola) si presta a divenire una metonimia dei destini del mondo e, non a caso, il capitolo sul «Tramonto degli idoli di pietra» è il più letto e citato del celebre libro Collasso di Jared Diamond (Einaudi, 2005).
Diamond è l’ultimo dei grandi cantori del tragico destino: prima di lui ci furono Alfred Métraux e soprattutto Thor Heyerdahl: testimoni diretti, nella prima metà del Novecento, della decadenza di Rapa Nui. Oltre ai moai, al-
tri «misteri» hanno contribuito a creare la leggenda: l’indecifrabile scrittura rongorongo (alcune tavolette di legno inciso sono conservate ai Musei Vaticani); lo stile «cadaverico» delle sculture moai kavakava, una plastica rappresentazione indigena della catastrofe.
C’è un terzo nome con cui questo lembo di terra che dista più di 3.500 km dal Cile e oltre 2 mila km dalle isole più prossime (Pitcairn e le Gambier) è conosciuta: Te pito
’o te henua, un’espressione polinesiana che significa sia la «fine», l’«estremità», sia l’«ombelico» ( pito) della «terra» ( henua). La fine e la nascita condensati in un nome sono l’espressione più calzante di ciò che più volte è successo nella storia dell’isola. Rapa Nui e la popolazione che la abita vivono oggi un inatteso rinascimento, supportato dall’emigrazione, dalla trans-località (il vivere di una stessa comunità in più luoghi) e dalla globalizzazione. È come se i moai, di recente restaurati e patrimonializzati, nuovamente eretti sulle grandi piattaforme rituali ( ahu), tornassero a guardare fieri verso l’orizzonte e il futuro, grazie all’arrivo sempre più cospicuo di turisti, all’istituzione di un parco nazionale e alla diaspora dei ra
panui (il nome con cui amano essere definiti gli abitanti) verso il Cile e la Polinesia francese. Il tema delle crisi e delle rinascite dell’Isola di Pasqua è oggetto di un importante studio presentato a Marsiglia, in una lunga e impegnativa tesi di dottorato, dall’antropologo cileno Diego Muñoz Azócar ( Diaspora rapanui 1871-2015).
Per i rapanui, le grandi statue, le scritture rongorongo e le sculture moai kavakava hanno rappresentato a lungo una condanna più che una risorsa. Testimoni silenziosi e muti di una civiltà al tramonto, in preda a una sorta di Alzheimer culturale, considerati inadatti alla vita moderna, i rapanui figurano come spettrali comparse in gran parte dei reportage e dei libri dedicati all’isola. La decadenza e il «vuoto» memoriale, però, sono tutt’altro che slegati dalle vicende coloniali. «Otoroka», «Benvenuti»! È la prima parola rapanui raccolta da una fonte occidentale, la mattina del 5 aprile 1722, giorno in cui l’isola entra nella nostra cartografia grazie al viaggio di esplorazione dell’olandese Jacob Roggeveen. All’epoca la costruzione dei grandi moai era ormai completata, ma la «civiltà» dell’Isola di Pasqua era ancora florida e molte migliaia di abitanti vivevano in un quasi completo isolamento. Passarono 50 anni prima del passaggio di un altro occidentale, lo spagnolo Felipe González de Haedo (1770): poi fu la volta di James Cook (1774) e del conte francese La Pérouse (1786). E fu proprio Cook a testimoniare per la prima volta il fatto che alcuni moai erano stati rovesciati. Secondo l’interpretazione di Muñoz, la presenza occidentale avrebbe scatenato una crisi cosmologica e politica, mettendo in crisi l’autorità degli ariki (i «capi») a cui erano legate la costruzione e il culto dei moai. Il peggio però era di là da venire.
Tra il 1862 e il 1864, mercanti di schiavi del Perù fecero ripetute razzie, «ingaggiando» quasi 1.500 rapanui che furono venduti nel porto di Callao. Quasi tutti morirono
in Sudamerica: le cronache riportano che nel 1863, all’ospedale di Lima, morì Kaimakoi, l’ariki mau (il «capo» di maggior prestigio) dell’Isola di Pasqua. Suo figlio Maurata farà la stessa fine alle isole Chicas. Una manciata di superstiti tornò sull’isola negli anni successivi, innescando una terribile epidemia di vaiolo: nel 1887, un secolo dopo Cook, Rapa Nui era ridotta a 110 abitanti! Un altro centinaio di isolani viveva a Tahiti e a Mangareva (isole Gambier) dove i missionari, che nel frattempo avevano convertito l’isola, avevano trasferito parte della popolazione. I «vuoto di memoria», la «decadenza», la «crisi cosmologica e politica», che etnologi ed archeologi registrarono a partire dai primi anni del Novecento, furono il frutto acerbo dell’incontro con i «bianchi» e della decimazione provocata dalle razzie dei commercianti di uomini peruviani. Nel 1888, lo Stato cileno annette l’isola e affida a una società privata, la Williamson & Balfour Company, allevatori di pecore, l’amministrazione di Rapa Nui. Fino a metà degli anni Sessanta, privi di cittadinanza e soggetti a un regime paternalista che li «tutelava» impedendo loro di viaggiare, i rapanui vissero un lungo periodo di «confino» a casa loro, in compagnia delle pecore merinos e di qualche studioso interessato alle tecniche di costruzione dei moai.
Il vento fa il suo giro (e poi ritorna), recita il titolo di un bel film di Giorgio Diritti. E il vento della rinascita cominciò a soffiare a Rapa Nui negli anni Sessanta, quando gli Usa finanziarono la costruzione di un grande aeroporto e finalmente i rapanui ottennero la cittadinanza cilena. La linea aerea Santiago del Cile, Isola di Pasqua, Tahiti venne inaugurata nel 1966. L’arrivo di funzionari cileni, prima timido poi consistente, inaugurò una stagione di innamoramenti e matrimoni misti. Sposandosi «fuori», le donne rapanui acquisirono per sé e i loro figli diritti e possibilità di viaggiare e stabilirsi nel Cile continentale. In quegli anni, secondo la ricostruzione di Muñoz, un frequente discorso sui rischi dell’endogamia (il matrimonio all’interno di un gruppo) e dell’«incesto» si diffonde sull’isola. I genitori invitavano i loro figli a sposarsi con cileni e tahitiani e presto cominciò a crescere una generazione meticcia.
Nel giro di pochi decenni, Rapa Nui cessa di essere un’isola e diviene un «arcipelago»: due consistenti comunità di pasquensi vivono ora a Santiago e a Tahiti e una più piccola comunità si stabilisce a Mangareva. Nei pressi di Papeete (Tahiti), i rapanui rivendicano la proprietà di un grande appezzamento di terra, che gli anziani ricordano essere stato acquisito per loro dalla missione cattolica alla fine dell’Ottocento.
Negli ultimi venti anni il vento del cambiamento ha portato sull’isola i turisti, oggi fin troppo numerosi (oltre centomila nel 2016): la globalizzazione nel frattempo ha abbattuto molti confini e indebolito gli Stati e le loro politiche di welfare. I legami basati sulla reciprocità e sulla condivisione fanno viaggiare denaro, merci e persone tra l’isola-àncora e le nuove isole dell’arcipelago rapanui, creando le condizioni per una (relativamente) florida economia trans-locale.
Alla formidabile crescita demografica — l’isola principale contava 6.700 abitanti nel 2014 — si accompagna oggi un intenso processo di recupero della «polinesianità». Contaminata dal dialetto tahitiano e da quello di Mangareva, la lingua polinesiana di Rapa Nui conosce una nuova stagione di vigore e orgoglio. I rapanui guardano con sospetto i cileni continentali che sbarcano sulla «loro» isola in cerca di lavoro nel turismo e nell’amministrazione e che non parlano polinesiano. Sfruttando la legge che consente di scegliere quale dei due cognomi dei genitori (e persino dei nonni) scegliere per i figli, gli isolani stanno recuperando i nomi di famiglia polinesiani dati loro dai missionari ai tempi del primo battesimo. Se il Cile colloca i rapanui tra i «popoli indigeni» (insieme agli ay
mara e ai mapuche), loro tengono a distinguersi come veri polinesiani, discendenti di antichi navigatori provenienti da ovest, da Hiva, la «terra del benessere». Gli aeroporti, la diaspora, la globalizzazione, il turismo e la densità dell’iperluogo che alimenta l’interesse esterno per l’isola: tutti questi elementi stanno contribuendo alla rinascita di una società che molti consideravano abitante di un paradiso perduto.