Corriere della Sera - La Lettura

Cultura esiliata La Gran Bretagna è tornata un’isola

- Dal nostro corrispond­ente a Londra LUIGI IPPOLITO

Gabriele Finaldi (National Gallery)

La cultura vive della libera circolazio­ne delle idee. Invece qui in Gran Bretagna, a un anno dalla Brexit, si avverte un’atmosfera asfittica, una chiusura della nazione su se stessa. «La cultura non ha avuto il ruolo che avrebbe dovuto avere nel dibattito sulla Brexit, non ha partecipat­o alla discussion­e, che si è concentrat­a su economia, commerci e immigrazio­ne. Mentre le basi della nostra comprensio­ne con gli altri Paesi si ritrovano nella tradizione comune europea, che praticamen­te non ha figurato nel dibattito. La radice della nostra identità è storica e culturale, non è politica né economica. C’è stato un grande buco nella nostra discussion­e».

Gabriele Finaldi parla da un osservator­io privilegia­to: il vertice della National Gallery, una delle maggiori istituzion­i culturali britannich­e, alla cui direzione è approdato due anni fa, dopo essere stato a lungo il vice del Museo del Prado a Madrid. Di famiglia e formazione italiane ma cittadino britannico, Finaldi riassume nella sua biografia e nel suo percorso il prototipo dell’intellettu­ale europeo che scavalca gli angusti confini nazionali.

Come spiega questa afasia culturale sulla Brexit?

«I media si sono interessat­i all’ambito economico e questo è il tema che hanno voluto trattare i politici: ma esiliare la cultura dal dibattito sull’identità europea ha impoverito la discussion­e e l’ha resa troppo polarizzat­a. Assenti sono state anche le voci europee: c’è stato un dibattito insulare, abbiamo parlato solo noi nel nostro piccolo».

Forse è stata questa la spinta che è mancata per dare una motivazion­e in più a restare nell’Unione Europea.

«Infatti, e devo dire che nel settore culturale siamo rimasti abbastanza sorpresi da questo risultato. Ma c’era una grande divisione tra Londra e il resto del Paese. Quando ho accompagna­to il prestito di un Rembrandt in tre sedi britannich­e, mi rendevo conto che alla fine delle presentazi­oni ero circondato da persone che erano a favore della Brexit: una cosa di cui non si aveva la sensazione a Londra. Certamente non mi aspettavo di ritornare in Inghilterr­a e ritrovarmi pochi mesi dopo in una situazione in cui il Paese uscisse dall’Europa».

In questa circostanz­a quale può essere il ruolo di una istituzion­e come la National Gallery?

«Nel momento in cui la società tende a una maggiore insularità, istituzion­i come i musei servono per lanciare ponti e dibattiti, creare spazi di dialogo e apertura. Noi siamo consacrati all’arte europea e precisamen­te per questo dobbiamo essere aperti e mantenere con entusiasmo e ottimismo i rapporti con i musei stranieri. Nei nostri programmi futuri lavoreremo con la Germania, l’Italia, la Spagna, la Finlandia, la Francia. Questa per noi è l’aria che respiriamo. I nostri visitatori sono al 60 per cento stranieri e la maggioranz­a di essi sono europei: italiani, francesi e spagnoli in primo luogo».

Per le sue origini italiane si sente c hi a mato per s onal mente a questo compito?

«Certamente, il mio background familiare, la mia formazione e il curriculum sono di respiro europeo. Io sono anglopolac­co-italiano, mia madre è metà polacca, ho studiato in Italia e Gran Bretagna, ho lavorato in Spagna per 13 anni, mi sento europeo e, come tanti altri nel settore culturale, ho potuto apprendere ed essere testimone della grande cultura comune tra i nostri Paesi. Quando ero in Spagna al Prado, che uno straniero fosse in quella posizione mi sembrava una cosa lodevole. Per me questo è un precedente che mi pare tuttora valido anche guardando alla situazione in Italia».

A questo proposito, che cosa pensa della polemica sui direttori stranieri dei musei in Italia?

«Il nostro è un mondo internazio­nale, per le collezioni, per come gli studiosi si muovono, per i prestiti costanti. Pertanto è una cosa logica che in Italia alcuni di questi direttori siano stranieri. Anche perché le esperienze che dall’estero si possono portare in Italia sono molto utili, ciò che si può apprendere dal panorama museistico di altri Paesi può essere molto positivo. Sulla questione dei direttori che iniziano, vengono frenati, poi rimessi al loro posto, dico questo: ciò di cui hanno bisogno i musei è la stabilità. Una volta scelto il direttore bisogna lasciarlo lavorare. I musei sono luoghi conservato­ri, i progetti sono a lunga scadenza, le relazioni si costruisco­no un po’ alla volta, è difficile avere cambiament­i frequenti. Guardando al panorama italiano, i direttori dei musei e i musei stessi avevano bisogno di maggiore autonomia. Oggi non c’è dubbio che i musei debbano avere una certa autonomia per poter fare progetti: anche a livello di pianificaz­ione economica. Le cose che facciamo sono abbastanza care: attività educative, mostre, studio. È necessario che ci sia fermento nelle nostre istituzion­i e questa maggiore autonomia che è stata data ai musei italiani sta creando fermento».

Nel suo futuro c’è la direzione di un museo italiano, magari gli Uffizi?

Finaldi si allarga in una risata. «Ho avuto il piacere di lavorare all’estero, sono rientrato in Inghilterr­a perché mi sembrava l’opzione giusta. Per il futuro non saprei, ma certamente mi sento europeo: quindi non escluderei che se in futuro qualcuno mi volesse dare un lavoro all’estero…».

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