Corriere della Sera - La Lettura
Ha ancora una chance: diventare una città diversa
Chris Dercon, belga, guida il teatro simbolo dell’identità della capitale. Ha scatenato reazioni accese: qui illustra la sua visione
Impossibile dire che il belga Chris Dercon non abbia ambizione. Vuole usare la sua nuova Volksbühne, che debutterà in autunno, per affermare un’idea nuova di arti visive-teatro-cinema; vuole stare nella tradizione del teatro più radicale e politico di Berlino ma anche affermare che la capitale tedesca è aperta e il suo futuro non è pauperista; vuole cambiare l’asse urbanistico della città. E sperimentare, dice, nell’unica metropoli in cui si può ancora farlo. Il suo arrivo è stato salutato con opposizioni fortissime da chi lo ritiene un intruso, espressione della globalizzazione. Lo hanno insultato per strada. Lo chiamano investitore invece di Intendant. Gli hanno versato in testa una birra. La gestione vecchia della Volksbühne, quella guidata da Frank Castorf che è uscita di scena a fine giugno, ha impedito al suo team di entrare in teatro.
Una guerra culturale condotta con più mezzi...
«Questo dibattito è normale per il teatro. È teatro. Parte della sua tradizione. Ogni volta che hai un nuovo Intendant hai questo tipo di onde. Il teatro è fondato su antagonismo e protagonismo. In questo momento io sono protagonista. Sono in scena. Il dibattito, però, ha anche a che fare con dove sta andando Berlino».
In che senso?
«Rispetto a Londra, Parigi, Barcellona, Berlino ha ancora una chance di diventare un’altra città. Ci confrontiamo tutti con gli stessi problemi, con la distanza che cresce tra ricchi e poveri, con la nuova destra. E a Berlino siamo molto sensibili ai problemi di identità, il 30% della popolazione arriva dall’estero, molti non parlano tedesco: la città si confronta con la gentrification, è più aperta di prima agli investitori. Ma può ancora essere diversa dalle altre città».
Diversa come?
«Parigi è la città del lusso dove poche cose si muovono. Estetica e statica. Londra è un monolite del capitalismo. Barcellona è il plebiscito del turismo, la città dei trolley. Berlino ha la chance di essere diversa. Negli anni Novanta aveva promesso di essere il luogo ideale per gente creativa, per gli artisti, per gli immigrati. Può ancora esserlo. Quello che trovo scandaloso è l’ex sindaco Klaus Wowereit che diceva che Berlino è povera ma sexy. Uno slogan perverso: è l’accettazione della precarietà. In città arrivano artisti da tutto il mondo e si considerano berlinesi. Sono la nuova Berlino a cui occorre dare qualcosa. Noi lavoriamo con molti di loro. Gli offriamo una casa in cui operare in modo professionale: teatro, danza, arti visive, cinema, digitale».
Come si confronta la sua Volksbühne con questo nuovo pubblico?
«Ora, un terzo del pubblico viene non per il teatro, perché non capisce il tedesco. Viene per la comunità che il luogo rappresenta. Dobbiamo tenerne conto: come combiniamo il vecchio e il nuovo per produrre qualcosa di significativo che a Berlino non c’è ancora».
Perché incontra tante opposizioni?
«Perché vengo da Londra, che è male. Perché vengo da un museo ricco (la Tate Modern, ndr), che è molto male. Quindi tutti i problemi di Berlino sono proiettati su di me. È un ruolo fantastico, mi dà ispirazione. Mi sento privilegiato a esse- re parte della conversazione. L’unico strumento che ho è stare calmo e cercare di capire. La dicotomia destra/sinistra è del tutto cambiata. Molti a Berlino considerano il post-colonialismo di Dercon una forma di neoliberalismo e allo stesso tempo considerano le politiche identitarie strumento della sinistra radicale. Una volta era molto diverso, no? Ma la contraddizione ci deve ispirare. I giovani vanno ascoltati perché Berlino non è la città della mia generazione, è la loro città».
Che cos’è che l’ha attratta?
«Quando ho preso la telefonata, la proposta non era vuoi venire in un teatro a Berlino. Era vuoi venire alla Volksbühne. Non sarei mai venuto per dirigere un teatro qualsiasi. Qui, per la prima volta nella mia vita, ho la possibilità di offrire uno spazio agli artisti per mostrare cosa è arte, cosa è cinema, cosa è teatro».
Il suo progetto di Volksbühne riguarda però l’intera Berlino, non solo qui, in Rosa-Luxemburg-Platz.
«Si tratta di capire come la città può crescere. E non sarà solo sull’asse Est-Ovest, ormai completo, ma anche NordSud: che cosa si farà delle aree dell’aeroporto di Tegel a Nord quando sarà abbandonato e di quello di Tempelhof. Per questo occuperemo anche un hangar di quest’ultimo, al fianco di quelli dove dormono i rifugiati: perché il Volk (popolo, ndr) della Volksbühne è cambiato e vive lungo linee diverse. Noi siamo i pionieri».
Un progetto urbanistico.
«La condizione che ho posto per venire a Berlino era quella di creare una Volksbühne Berlin, composta oltre che dal teatro sulla Rosa Luxemburg Platz — che è il cuore, il nostro Vaticano — anche da satelliti: il Prater (un teatro gestito dalla Volksbühne, ndr), la nuova collaborazione con il cinema Babylon, spazi all’aperto, Tempelhof. E, molto importante, uno spazio digitale».
Sarà una Volksbühne meno politica?
«Niente affatto. Un esempio sarà Boris Charmatz (coreografo, ndr) che a Londra ha portato la danza in open air a commento di quello che succede nella città, il terrorismo, la violenza. Lavoreremo con Paul Mason del “Guardian”. Un altro esempio è che lavoriamo molto più di prima con le donne, sulla politica del corpo, della sessualità. Frank Castorf non ha mai avuto donne: se non per le pulizie. Siamo molto interessati alla politica ma non all’ideologia. Sorry ».
Che cosa pensa del lavoro di Castorf?
«Lo adoro. È uno dei momenti più importanti nella storia del teatro del Ventesimo secolo».
Ma gli ha parlato?
«Una volta, prima di essere chiamato a Berlino, poi più».
Ha detto che il teatro di Castorf è rumoroso.
«Sì, certe volte è troppo rumoroso. A me piacciono i sussurri. Sono stato cresciuto cattolico. Non dico di esserlo ancora, ma credo nei confessionali, nel mistero che quando ti sei confessato sei perdonato. Mi piace la figura criptica».
Berlino ha bisogno di lei?
«No, il mio slogan è Non chiedere cosa Berlino può fare per te ma cosa puoi fare tu per Berlino» (ride).