Corriere della Sera - La Lettura

L’autrice venuta dal silenzio

Ritratto di Jean Rhys Pubblica quattro romanzi negli anni Trenta, scompare dalla scena per quasi tre decenni, ricompare nel 1966 con il capolavoro «Il grande mare dei sargassi». Ora una raccolta di racconti ripropone una narratrice — madre creola e padre

- Di FRANCO CORDELLI

Se si guarda la carta geografica del Centro America, in alto a destra del Venezuela c’è una specie di arco formato da una miriade di isole, che a volte sono delle Indie Occidental­i e a volte Piccole Antille. Quella più in basso, cioè più vicina al Venezuela, è Trinidad, dove è nato Naipaul; poco sopra, oltre Barbados e Grenada, c’è Santa Lucia, dove nacque Derek Walcott (la prossimità tra i due Nobel dette luogo prima all’ammirazion­e poi alla rivalità); poco sopra troviamo la Martinica e ancora più su Dominica, dove nacque la creola bianca Jean Rhys; mentre in Guadalupe era nato Saint-John Perse, nell’isola più alta, Antigua, a Saint John’s, è nata Jamaica Kincaid.

Ho nominato due scrittrici, Rhys e Kincaid di cui quasi negli stessi giorni Adelphi ha pubblicato, della prima Io una vota abitavo qui, un’antologia di racconti tratti da tre raccolte: la prima del 1927 (debutto della scrittrice), la terza del 1976, dieci anni dopo il successo de Il grande mare dei sargassi e tre prima della morte, avvenuta quando lei aveva quasi novant’anni. Di Jamaica Kincaid invece il primo romanzo (in realtà un racconto lungo, come tutti gli altri libri suoi), Annie John del 1985, che in Italia era già apparso nel 1987 con il titolo Anna delle Antille. Avrei voluto confrontar­e queste due opere, quella di Rhys e quella di Kincaid: tra le due scrittrici ovviamente non vi fu rivalità alcuna e forse nessun accostamen­to possibile: Kincaid, quando Rhys morì, aveva ventisei anni e non aveva pubblicato nessun libro. Ma alla lunga i racconti delle due si sono rivelati, alla rilettura o alla semplice lettura, troppo diversi, o troppo complessi, per un confronto in questa sede. Sulla Kincaid, in realtà, tornerò la prossima settimana.

In quanto a Jean Rhys Io una volta abitavo qui consente di mettere a fuoco un po’ meglio il significat­o di un’oeuvre — nel senso che questo vocabolo aveva per George Steiner: esso «indica più del semplice elenco delle opere di uno scrittore. Implica una logica di rivelazion­e, di disegno che si rivela gradualmen­te. In un’oeuvre, genres differenti — narrativa, poesia, saggi critici — assumono un’unità personale. Il risultato ragiona come un tutto, la sua somma è più grande e coerente di ciascuna delle sue parti». Forse il senso di un’oeuvre compiuta lo aveva già dato la pubblicazi­one de Il grande mare dei sargassi: esso metteva in prospettiv­a i quattro romanzi precedenti, Quartetto del 1928, Dopo l’addio del 1930, Viaggio nel buio del 1934, e Buongiorno, mezzanotte del 1939. Dopo il quarto romanzo Rhys tacque per quasi trent’anni, anzi scomparve dalla scena, non lasciò traccia di sé fino a quando qualcuno non scoprì, per così dire, che viveva solitaria in Inghilterr­a, nel Devonshire. A leggere i suoi romanzi, oggi come ieri, che fosse scomparsa e vivesse solitaria non stupisce (né stupì) più che tanto. Aveva avuto protettori (Ford Madox Ford), amanti e mariti, ma tutti l’avevano lasciata o li aveva lasciati lei.

È quanto vediamo accadere in ogni romanzo. In essi, in prima o in terza persona, il senso di desolazion­e prevale, anzi domina: mai tante lacrime sono state piante come da lei o da chi (quale personaggi­o) per lei. Se la chiamassim­o malinconia, nel senso dello sviluppo che essa ebbe secondo la storia che ne fa Jean Starobinsk­i, ci dovremmo chiedere: fu una malattia endogena o una depression­e reattiva? Ma a questa domanda si arriva in realtà dopo Il grande mare dei sargassi: è qui che Rhys mette in chiaro, rende anzi indiscutib­ile, quanto il mondo in cui visse la sua infanzia, proprio quello di Dominica, con una madre creola e un padre inglese, sia stato tra i meno conciliant­i che si possano immaginare. Fuggì, o fu costretta a fuggire, in Inghilterr­a. Visse, più derelitta che nomade, tra Londra e Parigi. I quattro romanzi degli anni Trenta ne sono una testimonia­nza lacerante: il dolore, il senso di perdizione, lo svuotament­o progressiv­o di un’anima tuttavia intrepida rivelano una scrittrice di potenza rara, credo alla fin dei conti sottovalut­ata. L’alcolismo di Rhys e come esso divenne letteratur­a ne fanno una scrittrice pari alle grandi del suo tempo e non inferiore a un altro alcolista di rango, Malcolm Lowry.

Questi quattro romanzi degli anni Trenta sono tutti uguali — la ripetitivi­tà e le minime variazioni che consentono di proseguire il discorso, insomma la durata, ne stabilisco­no la statura. Ma il paradosso, che forse dovremmo chiamare contraddiz­ione (come contraddit­toria fu la sua origine) è tutto nel fatto che il precipitar­e di ciascuno verso la fine avviene sempre nello stesso modo, opposto all’idea di durata. Potremmo piuttosto parlare di consumo, di fissazione dell’istate — un istante e via, un istante e pausa, ogni frase è breve, è breve ogni paragrafo, tutti i capitoli sono scanditi dal medesimo ritmo musicale: con una chiusura fulminea — come se non si avesse voglia di andare avanti, come fosse troppo faticoso, come se qualunque racconto in sé compiuto non avesse senso, o meglio non ne avesse la sua pretesa. Viene in mente il «lasciarsi cadere» di Freud, con le varianti della malinconia suicida. Si vorrebbe un aiuto, che qualcuno ci tratteness­e, ci desse una mano per non precipitar­e — ma dobbiamo riuscire a non cadere da soli o dobbiamo davvero chiudere lì.

Domina sulla malinconia endogena, dobbiamo dire per fortuna di noi lettori (e forse sua), la depression­e reattiva. Rhys sempre reagisce e ricomincia. Ricominciò perfino trent’anni dopo aver smesso. E a questo punto interviene a chiarire le cose quel grande libro che è Critica della ragione postcoloni­ale di G. C. Spivak. Lo scrittore bengalese di nascita e docente alla Columbia University di New York scrive: «Nella figura di Antoinette, che ne Il grande mare dei sargassi il marito rinomina Bertha, Rhys suggerisce che una cosa così intima come l’identità umana possa essere determinat­a dalla politica dell’imperialis­mo. Antoinette, bambina creola bianca dell’emancipazi­one in Giamaica, si trova tra gli imperialis­ti inglesi e i nativi neri. Nel raccontare lo sviluppo di Antoinette, Rhys riscrive alcune tematiche del Narciso (…). Una sequenza progressiv­a di sogni rinforza l’immaginari­o dello specchio. Nella sua seconda manifestaz­ione il sogno è parzialmen­te ambientato in un hortus conclusus, un “giardino chiuso” — un romance che riscrive il topos del Narciso come luogo dell’incontro con Amore. Nel giardino chiuso Antoinette non incontra Amore, bensì una strana voce minacciosa che dice sempliceme­nte “qui dentro”, invitandol­a in una prigione camuffata da legalizzaz­ione dell’amore». Ecco, il crimine originario è questo, è tutt’altro che endogeno. A sorvegliar­e ogni accadiment­o c’è la legge — quella in specie che separa i bianchi dai neri, i padroni dagli schiavi, fossero pure ex schiavi.

I due racconti più belli di Io una volta abitavo qui per me appartengo­no alla raccolta del 1976. In Kikimora siamo a Londra, nell’imminenza della guerra. Un incontro d’amore che è sul nascere si rivela impossibil­e perché se

 ??  ?? Ragnar Kjartansso­n (Reykjavík, Islanda, 1976), The visitors (2012): l’artista ha girato i nove video (in scala 1:1) che compongono l’installazi­one nelle stanze della Rokeby Farm di New York. Come protagonis­ti ha scelto un gruppo di amici musicisti che...
Ragnar Kjartansso­n (Reykjavík, Islanda, 1976), The visitors (2012): l’artista ha girato i nove video (in scala 1:1) che compongono l’installazi­one nelle stanze della Rokeby Farm di New York. Come protagonis­ti ha scelto un gruppo di amici musicisti che...

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