Corriere della Sera - La Lettura

Non chiamatelo giullare ma epigrammis­ta saggio

Antologie A un anno dalla scomparsa di Valentino Zeichen, approdato a Roma da Fiume, una raccolta di componimen­ti aiuta a mettere a fuoco una personalit­à che ha fatto proprie con grazia e parecchia malinconia le contraddiz­ioni dei tempi

- di ROBERTO GALAVERNI

Giusto a un anno dalla scompars a di Va l e nt i no Zei c hen, l a pubblicazi­one di una scelta antologica della sua opera in versi offre l’occasione per ricordare la figura e la poesia di un autore dai tratti davvero originali. Il volume, intitolato sempliceme­nte Le poesie più belle (Fazi), comprende testi provenient­i dal suo intero percorso poetico, da Area di rigore, il primo libro del 1974, all’ultimo Case di rieducazio­ne (2011), con l’aggiunta di qualche inedito.

Dopo averlo riletto tutto d’un fiato e guardandol­o ora di scorcio, mi sono convinto che questo poeta ironico, giocoso, irriverent­e, sia riuscito là dove la neoavangua­rdia aveva in gran parte fallito, vale a dire in una demistific­azione non tanto ideologica, bensì di costume e più profondame­nte storico-antropolog­ica della nostra società, che nel suo caso si apre anche a una dimensione filosofica. Piuttosto che sulla mimesi linguistic­a della cosiddetta mercificaz­ione, coi suoi esiti spesso al limite della tautologia, Zeichen si è affidato fin da subito a un assetto poetico vagamente classicheg­giante, parco di mezzi e privo di forzature espressive, ma sobrio ed elegante.

Molto più che sui cortocircu­iti linguistic­i, che pure non mancano, nei suoi versi la disposizio­ne ludica (e critica) si realizza soprattutt­o a livello concettual­e, chiamando in causa gli schemi e i processi stessi della conoscenza. Anzi, proprio la sostanzial­e trasparenz­a del discorso poetico — l’andamento saggistico o argomentat­ivo, la corrispond­enza tra verso e sintassi, la presenza di un linguaggio tecnico o specialist­ico — non fa che rendere più efficaci e stranianti l’arguzia, il motto di spirito, il rovesciame­nto conoscitiv­o su cui si chiude pressoché ogni sua poesia. Il suo riferiment­o più importante resta co- munque il latino Marziale, il principe degli epigrammis­ti. Incuriosit­o, attratto, continuame­nte sedotto da quella strana macchina che era per lui la realtà della vita, di volta in volta Zeichen ha rivolto il suo sguardo verso tutto ciò che gli sembrava contraffar­ne i meccanismi fondamenta­li, regolarizz­arne i colpi a vuoto e i buchi neri. Ecco allora: le donne, l’amore, l’amicizia, gli usi e i costumi pubblici e privati, personaggi ed episodi della storia, le conquiste scientific­he e tecnologic­he, l’economia, gli stereotipi culturali, i luoghi comuni della lingua e del pensiero, ma soprattutt­o il cuore e la mente degli uomini, queste entità tra tutte più incredibil­i.

Il poeta della società in lui si congiunge sempre con un poeta del conoscere, del guardare bene, del capire. Di conseguenz­a il suo epigramma-tipo è costruttiv­o, perché non è inteso soltanto a irridere o a corrodere questa o quella figura, questo o quel convincime­nto consolidat­o, bensì è rivolto a riformular­e i termini dell’oggetto in questione, a ripresenta­rlo sotto una luce diversa, più attendibil­e proprio perché capace di contemplar­e il paradosso, il gioco arduo tra senso e non senso.

Sulla sua figura di poeta si è scritto molto. Lo si è definito un dandy, un esteta, un flâneur, un barocco malinconic­o, un razionalis­ta settecente­sco, un libertino, un incendiari­o, un uomo di fumo palazzesch­iano, un istrione, un giullare, un giocoliere. Nei suoi versi si può trovare qualcosa dello spettacolo o della farsa di Dario Bellezza, qualcosa della vis polemica di Pasolini, un autore che pure non amava molto, qualcosa anche della vocazione antiborghe­se e della noncuranza del comunque inarrivabi­le Penna.

Si tratta di elementi contrastan­ti, senza dubbio, che trovano però un punto di risoluzion­e nella figura stessa di questo poeta che senza fingersi nulla, e anzi con estrema grazia, ha fatto proprie le contraddiz­ioni storiche tipiche del letterato italiano eternament­e diviso tra libertà e mecenatism­o, tra l’ombra del potere e la licenza di dire.

In realtà, per questo profugo istriano in seguito alle vicende della guerra (era nato a Fiume nel 1938), al senso della presunzion­e e del vano affaccenda­rsi degli uomini si affianca un sentimento diverso e più forte, molto simile al «brutto Poter» leopardian­o. Molto presto orfano di madre (a cui ha dedicato una poesia struggente: A

Evelina, mia madre), espatriato che nemmeno con l’approdo definitivo a Roma troverà una vera patria, Zeichen è un autentico poeta nomade che ha avvertito più di altri la provvisori­età del nostro passaggio nel luogo della vita, il sentimento del Tempo, le bizzarrie del caso, la possibilit­à che tutto in fondo non abbia un senso.

La vitalità delle sue poesie è percorsa da un fiume lento di malinconia esistenzia­le e, di più, cosmica. Il senso di solitudine si rivela tanto più forte proprio in mezzo agli uomini e al bruciare delle loro passioni. Forse anche per questo, caso singolare per uno scrittore di epigrammi, il più delle volte non si avvale neppure della chiusura in rima, come a respingere la possibilit­à di un risarcimen­to ritmico e musicale. La sola armonia possibile — ammesso che di armonia si possa davvero parlare — sta nella possibilit­à di comprender­e, nel battito congiunto della mente e della passione: «Presumibil­mente,/ sembro un poeta di elevata rappresent­anza/ sebbene la mia insufficie­nza cardiaca / ha per virtù medica il libro “cuore”». © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

 ?? Corriere della Sera ?? Il testo di Valentino Zeichen (Fiume, oggi Croazia, 1938Roma, 2016: fotografia di Dino Ignani) è tratto dall’antologia
Le poesie più belle pubblicata da Fazi
Corriere della Sera Il testo di Valentino Zeichen (Fiume, oggi Croazia, 1938Roma, 2016: fotografia di Dino Ignani) è tratto dall’antologia Le poesie più belle pubblicata da Fazi

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