Corriere della Sera - La Lettura
Non chiamatelo giullare ma epigrammista saggio
Antologie A un anno dalla scomparsa di Valentino Zeichen, approdato a Roma da Fiume, una raccolta di componimenti aiuta a mettere a fuoco una personalità che ha fatto proprie con grazia e parecchia malinconia le contraddizioni dei tempi
Giusto a un anno dalla scompars a di Va l e nt i no Zei c hen, l a pubblicazione di una scelta antologica della sua opera in versi offre l’occasione per ricordare la figura e la poesia di un autore dai tratti davvero originali. Il volume, intitolato semplicemente Le poesie più belle (Fazi), comprende testi provenienti dal suo intero percorso poetico, da Area di rigore, il primo libro del 1974, all’ultimo Case di rieducazione (2011), con l’aggiunta di qualche inedito.
Dopo averlo riletto tutto d’un fiato e guardandolo ora di scorcio, mi sono convinto che questo poeta ironico, giocoso, irriverente, sia riuscito là dove la neoavanguardia aveva in gran parte fallito, vale a dire in una demistificazione non tanto ideologica, bensì di costume e più profondamente storico-antropologica della nostra società, che nel suo caso si apre anche a una dimensione filosofica. Piuttosto che sulla mimesi linguistica della cosiddetta mercificazione, coi suoi esiti spesso al limite della tautologia, Zeichen si è affidato fin da subito a un assetto poetico vagamente classicheggiante, parco di mezzi e privo di forzature espressive, ma sobrio ed elegante.
Molto più che sui cortocircuiti linguistici, che pure non mancano, nei suoi versi la disposizione ludica (e critica) si realizza soprattutto a livello concettuale, chiamando in causa gli schemi e i processi stessi della conoscenza. Anzi, proprio la sostanziale trasparenza del discorso poetico — l’andamento saggistico o argomentativo, la corrispondenza tra verso e sintassi, la presenza di un linguaggio tecnico o specialistico — non fa che rendere più efficaci e stranianti l’arguzia, il motto di spirito, il rovesciamento conoscitivo su cui si chiude pressoché ogni sua poesia. Il suo riferimento più importante resta co- munque il latino Marziale, il principe degli epigrammisti. Incuriosito, attratto, continuamente sedotto da quella strana macchina che era per lui la realtà della vita, di volta in volta Zeichen ha rivolto il suo sguardo verso tutto ciò che gli sembrava contraffarne i meccanismi fondamentali, regolarizzarne i colpi a vuoto e i buchi neri. Ecco allora: le donne, l’amore, l’amicizia, gli usi e i costumi pubblici e privati, personaggi ed episodi della storia, le conquiste scientifiche e tecnologiche, l’economia, gli stereotipi culturali, i luoghi comuni della lingua e del pensiero, ma soprattutto il cuore e la mente degli uomini, queste entità tra tutte più incredibili.
Il poeta della società in lui si congiunge sempre con un poeta del conoscere, del guardare bene, del capire. Di conseguenza il suo epigramma-tipo è costruttivo, perché non è inteso soltanto a irridere o a corrodere questa o quella figura, questo o quel convincimento consolidato, bensì è rivolto a riformulare i termini dell’oggetto in questione, a ripresentarlo sotto una luce diversa, più attendibile proprio perché capace di contemplare il paradosso, il gioco arduo tra senso e non senso.
Sulla sua figura di poeta si è scritto molto. Lo si è definito un dandy, un esteta, un flâneur, un barocco malinconico, un razionalista settecentesco, un libertino, un incendiario, un uomo di fumo palazzeschiano, un istrione, un giullare, un giocoliere. Nei suoi versi si può trovare qualcosa dello spettacolo o della farsa di Dario Bellezza, qualcosa della vis polemica di Pasolini, un autore che pure non amava molto, qualcosa anche della vocazione antiborghese e della noncuranza del comunque inarrivabile Penna.
Si tratta di elementi contrastanti, senza dubbio, che trovano però un punto di risoluzione nella figura stessa di questo poeta che senza fingersi nulla, e anzi con estrema grazia, ha fatto proprie le contraddizioni storiche tipiche del letterato italiano eternamente diviso tra libertà e mecenatismo, tra l’ombra del potere e la licenza di dire.
In realtà, per questo profugo istriano in seguito alle vicende della guerra (era nato a Fiume nel 1938), al senso della presunzione e del vano affaccendarsi degli uomini si affianca un sentimento diverso e più forte, molto simile al «brutto Poter» leopardiano. Molto presto orfano di madre (a cui ha dedicato una poesia struggente: A
Evelina, mia madre), espatriato che nemmeno con l’approdo definitivo a Roma troverà una vera patria, Zeichen è un autentico poeta nomade che ha avvertito più di altri la provvisorietà del nostro passaggio nel luogo della vita, il sentimento del Tempo, le bizzarrie del caso, la possibilità che tutto in fondo non abbia un senso.
La vitalità delle sue poesie è percorsa da un fiume lento di malinconia esistenziale e, di più, cosmica. Il senso di solitudine si rivela tanto più forte proprio in mezzo agli uomini e al bruciare delle loro passioni. Forse anche per questo, caso singolare per uno scrittore di epigrammi, il più delle volte non si avvale neppure della chiusura in rima, come a respingere la possibilità di un risarcimento ritmico e musicale. La sola armonia possibile — ammesso che di armonia si possa davvero parlare — sta nella possibilità di comprendere, nel battito congiunto della mente e della passione: «Presumibilmente,/ sembro un poeta di elevata rappresentanza/ sebbene la mia insufficienza cardiaca / ha per virtù medica il libro “cuore”». © RIPRODUZIONE RISERVATA