Corriere della Sera - La Lettura
Gli uomini del mais sono arrivati in Svizzera
Il romanzo in versi di Fabiano Alborghetti sull’emigrazione dei nostri connazionali
Modelli di un raccontare in versi non mancano, dal secondo Novecento a oggi: vengono in mente La ragazza Carla di Elio Pagliarani con il suo amalgama sperimentale di linguaggi tecnici e di brani quasi lirici; le campiture sociali e storiche di Roberto Roversi, a partire da Dopo Campoformio; la ferialità ipnotica e sognata della Camera da letto di Attilio Bertolucci… E si potrebbe continuare, citando almeno Giorgio Cesarano con i suoi montaggi tra filmici e romanzeschi e, recentemente, il racconto generazionale tentato da Francesco Targhetta in Perciò veniamo bene nelle fotografie.
Tutto ciò deve essere stato ben presente a Fabiano Alborghetti, ticinese nato a Milano nel 1970, e deve aver contribuito a sospingerlo verso un nuovo, arduo tentativo di romanzo in versi (o di poema, come suggerisce Fabio Pusterla). Si direbbe che il movente primo sia tuttavia una specie di fame di realtà che già ha dato prova di sé in raccolte precedenti dell’autore, come L’opposta riva (2006 e 2013), costruita sulle voci dei migranti. Infine, dopo anni di ricerche, Alborghetti congegna una narrazione dal largo respiro, in 3 parti e in 70 capitoli (Maiser, Marcos y Marcos), che nel segno di una famiglia di emigranti ita- liani trasferitisi da Amelia in Ticino attraversa larga parte del Novecento: dall’immediato dopoguerra (con flashback che rimontano anche più indietro) all’oggi.
Bruno e Fermina sono i due personaggi cardinali della narrazione (fino all’umanissima e dolente fine di lui, colpito dall’Alzheimer): intorno a loro si dipartono fili e legami, tra ascendenze e nascite, che allargano il quadro. Perché Maiser (nomignolo spregiativo usato un tempo nella Svizzera tedesca per designare i lavoratori italiani, col significato di «polentone, contadino, uomo del mais») è un romanzo a suo modo epico, che cerca per mezzo delle sue figure normali di ricostruire un ambiente e uno sfondo, un clima anche sociale e politico, una vicenda collettiva.
Su questo il romanzo/poema si apre e si chiude. Ecco infatti l’attacco: «Era un uomo normale, come altri forse/ e bello, Bruno. L’inizio, è da questo momento/ in poi: la storia comune di un uomo normale/ in un dopoguerra di anni affamati/ e di affanni». E la chiusa: «E dicendo di quell’uno/ di quanti altri avrai parlato?».
C’è una vena civile profonda, intima, a sostenere l’intera impalcatura di questa storia, in realtà corale e in certa maniera esem- plare. Ecco perciò spiegata la rugosità e quasi la durezza espressiva di Maiser, come per non tradire la verità di una vicenda umile, di umili. Il rischio corso dall’autore è di sollevarsi appena di un soffio sopra la prosa: i versi sono spesso sordi e allungati e a compenso è usata, quasi come segnale di coesione, qualche rima ravvicinata, anche facile. Il testo ingloba del resto dialettismi, brani di canzoni d’epoca, oltre a citazioni poetiche, come a farsi arca, contenitore — dalla tenuta sempre in bilico — di una narrazione possibile del Novecento, intessuta da punti di vista modesti: sottomessi in qualche modo alla Storia, eppure vivi dentro di essa.