Corriere della Sera - La Lettura
LA CITTÀ È FERITA L’IDENTITÀ INCERTA
La guerra civile (1975-90) si vede ancora a Beirut nelle superstiti facciate liberty crivellate, nelle vetrate infrante, nelle palazzine ridotte a scheletri pericolanti. Molto è cambiato negli ultimi due decenni. La città non è tornata a essere la «Parigi d’Oriente» ma è stata comunque cantiere di una ricostruzione vigorosa e rapidissima, a partire dal centro. Downtown si dice adesso in inglese — lingua che nelle nuove generazioni ha scalzato il francese — e la parola si usa per indicare la zona delle gallerie commerciali, i bar, i ristoranti, le sedi del potere, la moschea blu inaugurata appena nel 2008. In gran parte a farsi carico (e a trarne profitto) della veloce ripresa edilizia a partire dalla metà degli anni Novanta è stata Solidere, la società del premier Rafik Hariri, assassinato con un’autobomba lungo uno dei viali principali di Beirut il 14 febbraio 2005. È una data spartiacque, che segna l’avvio di una nuova stagione di incertezza in Libano; la guerra con Israele nell’estate 2006; lo stallo della politica che si lega al fragilissimo equilibrio tra le minoranze, sull’orlo della rottura; i nuovi sanguinosi attentati nei quartieri sciiti, effetto del vicino conflitto a Damasco e della violenza dell’Isis; l’afflusso massiccio e destabilizzante di milioni di rifugiati dalla Siria. La città, ancora una volta, ne reca i tratti: nel grande cartello che copre il cantiere abbandonato di un hotel, proprio all’imbocco del lungomare, la Corniche, con la scritta: Stop Solidere; nel traffico caotico ciclicamente intasato da scioperi e proteste; nel centro tra il Parlamento e la sede del governo blindato e vuoto come un paesaggio metafisico; nelle palazzine fatiscenti trasformate in alloggi precari e insalubri per migliaia di famiglie siriane che il governo libanese lascia arrivare ma finge di non vedere.