Corriere della Sera - La Lettura
Vengo da Durazzo, modello la luce
Il padre di Helidon Xhixha era uno scultore governativo, lui è cresciuto in mezzo all’arte e adesso è il primo albanese ospitato dagli Uffizi con due autoritratti. Dopo aver portato alla Biennale di Venezia l’«Iceberg» che galleggiava sul Canal Grande, ora nel Giardino di Boboli (e in altri luoghi) i suoi lavori ne raccontano il percorso creativo: «Ci si riconosce anche nei materiali che si scelgono e io nel metallo ritrovo la forza e l’energia della mia città. Sogno un’esposizione itinerante. E spero di realizzare qualcosa per Central Park a New York»
Un nome, un destino. Niente di più vero se si pensa al percorso artistico di Helidon Xhixha, che è partito da Durazzo ed è approdato agli Uffizi con una sola ambizione: scolpire la luce. Il nome, un omaggio a Helios, dio greco dell’astro solare, gli è stato dato dal padre, artista figurativo a servizio del governo albanese, che ha cresciuto il figlio con l’idea che ogni scultore è un privilegiato, perché può dare vita alla materia.
A cinque anni il piccolo Helidon voleva catturare la luce e restituirla al mondo sotto forma di «sculture che sono al tempo stesso oggetti solidi e specchi effimeri», come ha annotato Eike D. Schmidt, direttore delle Gallerie degli Uffizi, nella prefazione al catalogo della mostra Helidon Xhixha. In ordine sparso, fino al 29 ottobre a Firenze, al Giardino di Boboli. «È raro che la scultura sia riuscita ad attirare l’attenzione allo stesso tempo di ragazzi e adulti, che invece spesso esaminano a lungo le opere di Xhixha e in genere ricorrono agli smartphone per catturare la propria immagine insieme a quelle che si riverberano sull’acciaio».
A portarlo a Firenze è stato proprio Schmidt: il colpo di fulmine con Xhixha è scattato nel 2015 alla Biennale di Venezia, quando ha visto il suo Iceberg emergere dalle acque della Laguna. La prima scultura mai autorizzata a galleggiare sul Canal Grande, che portava con sé un forte messaggio ambientalista contro il cambiamento climatico, gli è rimasta impressa. Si sono rivisti a Londra, per l’inaugurazione della London Design Biennale, dove l’artista albanese è stato chiamato ad allestire il cortile centrale della Somerset House. «Mi ha detto che trovava le mie opere particolarmente comunicative e che voleva me per inaugurare una serie di mostre di arte contemporanea al Giardino di Boboli», racconta Xhixha, che in otto mesi ha realizzato otto opere site specific per la mostra fiorentina ( Conoscenza, Infinito, Neon, Helium, Ordine e Caos, Nebula, Equilibrio, O di Giotto), da affiancare ad altre create tra il 2010 e il 2016 ( Sym- biosis, Deserto, Fragments, Elliptical Light, Luce, The Four Elements). L’acciaio lucidato, il materiale prediletto, si fonde con monoliti di marmo e bronzo, ma è la luce riflettente la protagonista. «Un artista riconosce se stesso anche nei materiali che sceglie e l’acciaio mi somiglia: la forza e l’energia di Durazzo — dice a “la Lettura” — le rivedo in questo materiale capace di assorbire luce e spazio, che necessita di una mano pesante per essere lavorato e ci ripaga con riflessi di noi stessi».
La sua storia di immigrazione è diversa da quella di tanti albanesi arrivati in Italia: «Sono molto orgoglioso delle mie origini, un Paese crocevia di culture e civiltà. Anche il rigore mi è stato utile, essere cresciuto in una famiglia di artisti mi ha sicuramente aiutato a tirare fuori il mio talento». Dopo le riflessioni ambientaliste ( Iceberg, 2015) e quelle umanitarie, espresse alla Biennale di Londra con Bliss (una serie di blocchi concentrici ma spezzati, metafora visuale della migrazione dei popoli), Helidon Xhixha a Firenze è stato chiamato a riflettere su caos e ordine, «due forze antagoniste solo in apparenza ma che in realtà operano all’unisono e fanno affidamento una sull’altra», come spiega Diego Giolitti nella prefazione al catalogo.
L’armonia di Ordine e Caos si dipana lungo un percorso di 14 opere fra sculture e installazioni monumentali, distribuite tra il giardino di Boboli e la città di Firenze, che rendono omaggio al modo in cui i due concetti sono stati affrontati nei secoli, nella filosofia, nella geometria e nel mondo naturale. Con Caos, ad esempio, installazione creata per la Limonaia del Giardino di Boboli, l’artista indaga la natura con lo scopo di comprendere il caos, ispirandosi alla Cueva de los Cristales di Naica in Messico, dove in una miniera di piombo e argento si ergono straordinari cristalli di selenite alti fino a 14 metri. La mostra ha uno spirito democratico: anche senza pagare il biglietto ci si imbatte in due sculture posizionate davanti a Palazzo Pitti. E l’arte dilaga fino a Piazza San Firenze, dove è stata installata la O di Giotto, una scultura in acciaio lucidato a specchio che ha sgomberato la piazza dagli ambulanti.
«Pare che tutta la Toscana in questo momento sia in osservazione della mia arte: negli aeroporti di Pisa e Firenze sono state posizionate mie opere. E solo lo scorso anno il sindaco di Pietrasanta, Massimo Mallegni, mi ha convinto a scolpire il marmo di Carrara per esporre le mie opere in piazza nella personale Shining Rocks», dice Xhixha mentre assapora il fatto di essere il primo artista albanese a entrare agli Uffizi. «Qui lascerò per sempre due miei autoritratti, mentre le opere si rimetteranno in viaggio: per loro sogno una mostra itinerante». Tra i collezionisti americani c’è anche Bill Gates, ma quello a cui Xhixha vuole parlare è un pubblico più vasto. «Spero prima o poi di realizzare una scultura in acciaio a Central Park. Quando ho visto i “cancelli” in metallo arancione montati da Christo, ho pensato che anche io vorrei lasciare il mio segno in quel luogo».
La sua arte comprensibile, a tratti pop, sembrerebbe avvicinarlo a Jeff Koons. «In realtà siamo molto distanti. Il mio maestro è Jackson Pollock, con la sua arte senza inizio e senza fine. Quello che diceva vale anche per le mie opere, che hanno uno spazio potenzialmente infinito». La lista dei ringraziamenti è molto familiare. C’è papà Sal, «che da anziano finalmente vede suo figlio dove avrebbe sperato arrivasse». Poi c’è Mara, la compagna di origini italiane: «Con la sua tenacia e il suo amore ha lavorato insieme a me per realizzare questo sogno». Per ultima, ma solo per un fatto anagrafico, c’è Electra, la loro bambina: «Ha portato ancora più luce nella mia vita. Come tutti è affascinata dalle sculture e prova a toccarle, vuole capirle. A scuola ripete a tutti che suo padre è un artista e per dimostrare di essere la figlia del suo papà non accetta che ci sia qualcuno migliore di lei in disegno».