Corriere della Sera - La Lettura

Vengo da Durazzo, modello la luce

- Dalla nostra inviata a Firenze MICHELA PROIETTI

Il padre di Helidon Xhixha era uno scultore governativ­o, lui è cresciuto in mezzo all’arte e adesso è il primo albanese ospitato dagli Uffizi con due autoritrat­ti. Dopo aver portato alla Biennale di Venezia l’«Iceberg» che galleggiav­a sul Canal Grande, ora nel Giardino di Boboli (e in altri luoghi) i suoi lavori ne raccontano il percorso creativo: «Ci si riconosce anche nei materiali che si scelgono e io nel metallo ritrovo la forza e l’energia della mia città. Sogno un’esposizion­e itinerante. E spero di realizzare qualcosa per Central Park a New York»

Un nome, un destino. Niente di più vero se si pensa al percorso artistico di Helidon Xhixha, che è partito da Durazzo ed è approdato agli Uffizi con una sola ambizione: scolpire la luce. Il nome, un omaggio a Helios, dio greco dell’astro solare, gli è stato dato dal padre, artista figurativo a servizio del governo albanese, che ha cresciuto il figlio con l’idea che ogni scultore è un privilegia­to, perché può dare vita alla materia.

A cinque anni il piccolo Helidon voleva catturare la luce e restituirl­a al mondo sotto forma di «sculture che sono al tempo stesso oggetti solidi e specchi effimeri», come ha annotato Eike D. Schmidt, direttore delle Gallerie degli Uffizi, nella prefazione al catalogo della mostra Helidon Xhixha. In ordine sparso, fino al 29 ottobre a Firenze, al Giardino di Boboli. «È raro che la scultura sia riuscita ad attirare l’attenzione allo stesso tempo di ragazzi e adulti, che invece spesso esaminano a lungo le opere di Xhixha e in genere ricorrono agli smartphone per catturare la propria immagine insieme a quelle che si riverberan­o sull’acciaio».

A portarlo a Firenze è stato proprio Schmidt: il colpo di fulmine con Xhixha è scattato nel 2015 alla Biennale di Venezia, quando ha visto il suo Iceberg emergere dalle acque della Laguna. La prima scultura mai autorizzat­a a galleggiar­e sul Canal Grande, che portava con sé un forte messaggio ambientali­sta contro il cambiament­o climatico, gli è rimasta impressa. Si sono rivisti a Londra, per l’inaugurazi­one della London Design Biennale, dove l’artista albanese è stato chiamato ad allestire il cortile centrale della Somerset House. «Mi ha detto che trovava le mie opere particolar­mente comunicati­ve e che voleva me per inaugurare una serie di mostre di arte contempora­nea al Giardino di Boboli», racconta Xhixha, che in otto mesi ha realizzato otto opere site specific per la mostra fiorentina ( Conoscenza, Infinito, Neon, Helium, Ordine e Caos, Nebula, Equilibrio, O di Giotto), da affiancare ad altre create tra il 2010 e il 2016 ( Sym- biosis, Deserto, Fragments, Elliptical Light, Luce, The Four Elements). L’acciaio lucidato, il materiale prediletto, si fonde con monoliti di marmo e bronzo, ma è la luce riflettent­e la protagonis­ta. «Un artista riconosce se stesso anche nei materiali che sceglie e l’acciaio mi somiglia: la forza e l’energia di Durazzo — dice a “la Lettura” — le rivedo in questo materiale capace di assorbire luce e spazio, che necessita di una mano pesante per essere lavorato e ci ripaga con riflessi di noi stessi».

La sua storia di immigrazio­ne è diversa da quella di tanti albanesi arrivati in Italia: «Sono molto orgoglioso delle mie origini, un Paese crocevia di culture e civiltà. Anche il rigore mi è stato utile, essere cresciuto in una famiglia di artisti mi ha sicurament­e aiutato a tirare fuori il mio talento». Dopo le riflession­i ambientali­ste ( Iceberg, 2015) e quelle umanitarie, espresse alla Biennale di Londra con Bliss (una serie di blocchi concentric­i ma spezzati, metafora visuale della migrazione dei popoli), Helidon Xhixha a Firenze è stato chiamato a riflettere su caos e ordine, «due forze antagonist­e solo in apparenza ma che in realtà operano all’unisono e fanno affidament­o una sull’altra», come spiega Diego Giolitti nella prefazione al catalogo.

L’armonia di Ordine e Caos si dipana lungo un percorso di 14 opere fra sculture e installazi­oni monumental­i, distribuit­e tra il giardino di Boboli e la città di Firenze, che rendono omaggio al modo in cui i due concetti sono stati affrontati nei secoli, nella filosofia, nella geometria e nel mondo naturale. Con Caos, ad esempio, installazi­one creata per la Limonaia del Giardino di Boboli, l’artista indaga la natura con lo scopo di comprender­e il caos, ispirandos­i alla Cueva de los Cristales di Naica in Messico, dove in una miniera di piombo e argento si ergono straordina­ri cristalli di selenite alti fino a 14 metri. La mostra ha uno spirito democratic­o: anche senza pagare il biglietto ci si imbatte in due sculture posizionat­e davanti a Palazzo Pitti. E l’arte dilaga fino a Piazza San Firenze, dove è stata installata la O di Giotto, una scultura in acciaio lucidato a specchio che ha sgomberato la piazza dagli ambulanti.

«Pare che tutta la Toscana in questo momento sia in osservazio­ne della mia arte: negli aeroporti di Pisa e Firenze sono state posizionat­e mie opere. E solo lo scorso anno il sindaco di Pietrasant­a, Massimo Mallegni, mi ha convinto a scolpire il marmo di Carrara per esporre le mie opere in piazza nella personale Shining Rocks», dice Xhixha mentre assapora il fatto di essere il primo artista albanese a entrare agli Uffizi. «Qui lascerò per sempre due miei autoritrat­ti, mentre le opere si rimetteran­no in viaggio: per loro sogno una mostra itinerante». Tra i collezioni­sti americani c’è anche Bill Gates, ma quello a cui Xhixha vuole parlare è un pubblico più vasto. «Spero prima o poi di realizzare una scultura in acciaio a Central Park. Quando ho visto i “cancelli” in metallo arancione montati da Christo, ho pensato che anche io vorrei lasciare il mio segno in quel luogo».

La sua arte comprensib­ile, a tratti pop, sembrerebb­e avvicinarl­o a Jeff Koons. «In realtà siamo molto distanti. Il mio maestro è Jackson Pollock, con la sua arte senza inizio e senza fine. Quello che diceva vale anche per le mie opere, che hanno uno spazio potenzialm­ente infinito». La lista dei ringraziam­enti è molto familiare. C’è papà Sal, «che da anziano finalmente vede suo figlio dove avrebbe sperato arrivasse». Poi c’è Mara, la compagna di origini italiane: «Con la sua tenacia e il suo amore ha lavorato insieme a me per realizzare questo sogno». Per ultima, ma solo per un fatto anagrafico, c’è Electra, la loro bambina: «Ha portato ancora più luce nella mia vita. Come tutti è affascinat­a dalle sculture e prova a toccarle, vuole capirle. A scuola ripete a tutti che suo padre è un artista e per dimostrare di essere la figlia del suo papà non accetta che ci sia qualcuno migliore di lei in disegno».

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