Corriere della Sera - La Lettura

Conseguenz­e di un delitto tra gli scavi archeologi­ci

Hans Tuzzi ambienta un mistero in un’area protetta. La visualizza­zione esplora siti, musei e monumenti italiani più visitati

- Di MICHELA LAZZARONI e HANS TUZZI

Sorgeva l’alba. Al confine fra Toscana e Lazio, solitudini deserte. «Soltanto il rombo del mio motore» pensò, ma non poté dire «sono solo» perché nel bagagliaio della BMW serie 6 Gran Coupé era costretta, piegata come una marionetta, Elena. Per essere più precisi, il cadavere di Elena. Del quale doveva sbarazzars­i. Per sua fortuna, sua di lui, quella vecchia pazza era tornata da Londra con tre giorni d’anticipo facendo scalo a Zurigo. Da dove gli aveva telefonato sullo smartph on e—«dovròc ambiare scheda», pensò — perché la andasse a prendere. Da Roma.

Perché, certo, lui, vent’anni più giovane, era lo stallone, l’autista e il deficiente da umiliare. Sì? Davvero? Be’, aveva scoperto a sue spese, la cara Elena, che non era così.

Lo aveva accolto con una crisi isterica: anche a Londra, come già a Mila- no e Zurigo, avevano decretato necessario operare. E un seno, si sa, si ricostruis­ce. Ma lei no, non poteva accettarlo. Era ricca, era sciocca, era egoista. Per anni gli aveva rifiutato l’accesso ai conti italiani, figuriamoc­i quelli esteri, e adesso, atterrita all’idea di diventare amazzone, aveva svuotato cassetta di sicurezza e conto nella banca sulle rive della Limmat. Pretendeva di attraversa­re il confine in auto con lui. La dogana svizzera, si sa, è molto meticolosa con chi viaggia in treno, meno con gli automobili­sti. «Perché non vai in treno, in auto con i soldi rischio solo io e ci ritroviamo a Milano?», aveva proposto lui ingenuamen­te. E la risposta di lei, offensiva, aveva messo il seme. Poi, passato indenni il confine, da Como a Bologna il seme aveva messo radici, e a Siena, complice l’ennesimo insulto di lei — «un uomo cui fan ribrezzo gli uccelli non è un uomo: è proprio vero, sei come il pipistrell­o, che più grosse ha le palle più piccolo ha il cervello» —il frutto: aveva freddament­e deciso. In macchina, cento sessantami­la euro e gioielli per pari valore. Loro due non erano sposati. Lei mancava da Roma da dieci giorni. Lui aveva residenza a Genova, dove c’era chi al caso avrebbe testimonia­to. Ma non doveva esserci caso.

Le aveva spezzato il collo in un folto di cipressi, intorno un paesaggio di pace irreale, una pieve nel silenzio rotto soltanto dal frinire delle cicale. L’aveva pigiata nel bagagliaio — ecco, rinunciare alla macchina, quello sì gli spiaceva, ma non c’era modo. Ora le preoccupaz­ioni erano tutte sue, mentre lei era al di là di ogni timore, là dove non vi è né notte, né giorno, né Essere, né Nonessere: la terra del Signore del sonno senza sogni.

Un cartello di fortuna, cartone scritto a mano: una freccia e SCAVO

ARCHEOLOGI­CO. Prese la sterrata. Che finiva sull’alto argine di un fiume. L’ora meridiana, distesa immobile sulla pianura. Campi di messi d’oro, e, sull’altra riva, in basso, all’ombra di una quercia secolare, due vacche bianche, immote se non per il ruminare lento che pur da quella distanza lui poteva indovinare. Nessuna presenza d’uomo a perdita di sguardo. Non un’anima, pensò, e subito avvertì un’ombra, pensando al corpo di Elena. E lo scavo? Sul fianco della collina: l’ingresso a una tomba, difeso soltanto da un esile nastro biancoross­o. Ma dove era, esattament­e? Lo smartphone, quello di lei, fu esauriente: pochi chilometri a piedi e sarebbe arrivato su una linea locale. Più che sufficient­e. Avrebbero trovato l’auto, e il corpo di Elena nello scavo: una turista troppo curiosa, una brutta caduta. Già. Ma prima era necessario controllar­e. Entrò. Avanzò nell’ombra. La stretta gal- leria trapezoida­le era alta più di due metri. Dopo una decina di passi svoltava a sinistra: se avesse proseguito, la bella luce del giorno alle sue spalle sarebbe cessata. Per sempre? Sciocchezz­e. Svoltò. L’ombra era più fitta, ma non assoluta. Tornò all’automobile, prese la torcia dal cruscotto. Intorno, a perdita di sguardo, a parte le due vacche, nessuno. Tornò indietro, entrò nella tomba. Non era la prima volta che entrava in una tomba. Con Elena, che a Roma aveva sempre amici stranieri di passaggio, quante volte aveva visitato Ostia: e, ogni volta, lei non aveva mancato di umiliarlo.

Si fermò: la torcia rendeva ben visibile un bassorilie­vo, una donna, e stretti in pugno due serpenti. Una dea, certo, come quella della Porta Romana, stazione fissa del circo di ogni visita con amici in vacanza. Il Capitolium, il tempio di Ercole — dove lei, perfida, trovava sempre il modo di sfiorarlo fra le cosce — le terme, i mitrei, le latrine (le latrine!). E con quant a i ronia l o guardava di s ot te cchi quando, davanti a quell’altare, diceva «Marte e Venere»...

Stupida donna! Se soltanto lo avesse trattato come un essere umano, non come una bestia da monta! Sì, certo, bel guardaroba, alberghi di lusso, auto super, ma non un momento libero, tutto per sé. E, ogni volta, pietire denaro contante. Alla catena. Per poi sentirsi dire che un vero uomo non ha schifo dei piccioni — e che poteva farci, lui, se invece quelle bestie gli ispiravano ribrezzo? — e, come i pipistrell­i, palle grosse e cervello piccolo. Curioso, non era mai riuscito a sentirsi sopra, con lei, nemmeno quando la piegava, e non era difficile, a far le cose più porche: era stato davvero, lui, solo un oggetto sessuale, era stata davvero, lei, sempre, la padrona! Fissò un’ultima volta la donna con i serpenti, immobile sulla pietra da... da quanto? Boh! Si riscosse. Doveva fare in fretta. E se fosse arrivato qualcuno? Be’, poteva sempre salutare e andarsene. Mica c’era sul bagagliaio il cartello OGGI MORTA, no? Però quel posto era ideale. E poi era una tomba, a suo modo una degna sepoltura. Non in terra consacrata, certo, ma sempre meglio che cibo alle bestie selvatiche, no?

Avanzò nella galleria, oltre la curva. E, pochi passi ancora, intuì, più che vedere, un blocco di tufo squadrato. Un sarcofago. Con dentro il morto? No, impossibil­e. Ma tra pochi minuti sì che ci sarebbe stato un cadavere, lì dentro. Fece un passo avanti e un velo freddo, no: gelido, una orrorosa sens az i o n e d i mal as o r te l o a v vo ls e . Quando cessa la ragione, restano gli archetipi. E lì, dinanzi a lui, sentì l’archetipo della Morte. Non poteva sbagliarsi: lungo il sarcofago correva incisa una scritta, e le prime lettere di quella scritta gli erano curiosamen­te familiari, perché c’era scritto ELEN ma ogni lettera e tutta la parola al contrario, come viste in uno specchio. Sentì che se avesse fatto ancora un solo passo, avrebbe varcato il confine dal quale non si torna. Arretrò, sciabolò la lama di luce nel fondo di quella tenebra. E dalla Tenebra sorsero creature e il loro re era l’angelo dell’Abisso. Scartò, inciampò, cadde urtando con la tempia l’angolo del sarcofago, e mentre la vita lo abbandonav­a insieme al sangue fece in tempo a pensare: pipistrell­i.

L’autrice La visualizza­zione di questa settimana è a cura di Michela Lazzaroni, informatio­n designer con sede a Milano. behance.net/michelaz

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