Corriere della Sera - La Lettura

I versi di Ocean Vuong che nascono dalla guerra

L’intervista Ocean Vuong non si chiamava così quando i genitori sono fuggiti nel 1990 dal Vietnam per approdare negli Usa. Fu difficile. «Ma se c’è un posto che posso chiamare casa, quel posto è l’America», dice ora che la sua raccolta di versi ottiene pr

- Di FEDERICA MANZON

Margine «Tutti gli outsider vivono su una soglia. Quando facciamo qualcosa di davvero creativo siamo tutti degli outsider»

Èun perfetto mattino primaveril­e del 1975, il cielo di Saigon fuma ancora. I giacinti bianchi ansimano sul prato dell’ambasciata e gli uccelli si affollano a beccare le briciole attorno alla panetteria bombardata. Automobili sventrate e l’ombra dei missili sui marciapied­i. Saigon è caduta in mano alle truppe comuniste nordvietna­mite, la guerra è finita ma si apre la crisi umanitaria. È l’inizio del drammatico esodo dei profughi — i cosiddetti boat people — destinato a durare ben oltre il biennio 1978-1979. Quindici anni dopo, Ocean Vuong ha due anni e anche i suoi genitori decidono di scappare con le navi in partenza per gli Stati Uniti. Arriva in Connecticu­t ed è l’inizio di una nuova vita che si preannunci­a difficile, ostile, ma americana. Ventisei anni dopo Ocean Vuong è salutato come il giovane talento della poesia statuniten­se, la sua raccolta Cielo notturno con fori d’uscita riceve premi importanti, è tradotta in molte lingue (in Italia per La nave di Teseo).

«Ho passato talmente tanto tempo ad attraversa­re confini politici, d’acqua, di classe, che ora mi sembra incredibil­e vedere le mie parole superarli ed essere accolte dalle letteratur­e che amo», spiega timidissim­o a «la Lettura». E racconta come è arrivato alla poesia. «Vengo da generazion­i di coltivator­i di riso analfabeti, è come se la capacità di lettura fosse assente dal mio Dna. Però sono sempre stato attorniato dalle poesie tradiziona­li che cantava mia nonna, erano una sorta di modo altro per comunicare. La poesia scritta l’ho scoperta per caso, da autodidatt­a. Un amico mi ha messo in mano Rimbaud e da lì ho iniziato, seguendo l’ordine della catalogazi­one in biblioteca. Così per me non esiste una gerarchia, Whitman sta accanto alle litanie del folklore vietnamita, in una strana metafora che per me è la scrittura».

Che cosa sono i fori d’uscita del titolo?

«Un’immagine di speranza. Nella fisiologia delle ferite in guerra, il foro d’uscita è lo scenario migliore che ti possa capitare quando sei colpito da un’arma da fuoco, perché ci sono buone possibilit­à di sopravvive­re. Per me è anche una sorta di rappresent­azione simbolica dei postumi delle guerre. Il momento in cui il proiettile è appena uscito ma il corpo è ancora ferito, ecco, quello è per me una sorta di spazio ideale da cui parlare».

Come è arrivato a raccontare una guerra che non ha vissuto direttamen­te?

«Era il mio lessico familiare. Mia madre mi mostrava una melanzana e diceva: “Vedi, in vietnamita si chiama pomodoro-granata”. Il nutrimento definito dall’estinzione. Tutto per me è cominciato con la guerra. Mia madre è stata concepita sul retro di una jeep militare, da un veterano di guerra innamorato di una contadina vietnamita, sotto un cielo infuocato dal napalm. Senza la guerra io non esisterei nemmeno. Quando ho iniziato a scriverne in un certo senso mi sono sentito parte di una tradizione antica, che inizia con Gilgamesh e Omero, stavo anch’io creando la mia mitologia. Però non intendo parlare al posto di nessuno. Faccio fiction, dico che i miei genitori sono immigrati in una bottiglia di vetro che ha attraversa­to l’oceano, scrivo di un proiettile che va indietro nel tempo e così credo di dire, non la verità degli eventi, ma dei sentimenti».

Si è mai sentito in pericolo in America?

«L’11 settembre è stato il mio personale romanzo di formazione. Quando le Torri sono crollate, la prima impression­e fortissima è che attorno a me non ci fosse altro che poesia. Nelle strade, sotto le lampade artificial­i, nelle frasi che circolavan­o nei social. In quel momento ho realizzato che quando le nostre fondamenta vanno in pezzi, la lingua della socialità si dissolve. Quando il trauma è così enorme e pubblico, e ci connette gli uni agli altri senza mediazioni, lì la poesia fa il suo ingresso. Avevo nove anni quando le Torri sono cadute. Ero in un supermarke­t e il proprietar­io, un bianco middle class, era così arrabbiato che ha iniziato a spaccare le scatole balbettand­o: i terroristi... i terro-

risti. In quella furia c’era spavento ma anche sollievo. Ero un ragazzino gay e straniero, conoscevo quel sentimento e capii che la lingua può creare ponti di riconoscim­ento».

Gli Stati Uniti sono per lei «casa»?

«Nel 2009 sono tornato per la prima volta in Vietnam per il funerale di mia nonna. Era diverso dai suoi racconti. Saigon sembrava Times Square e c’era violenza ovunque. È stato come essere di nuovo un immigrato. Quando sono ritornato a New York ho provato un vero e proprio sollievo. Anche se ci sono dei luoghi oggi che mi sono vietati, quei quartieri dove nei giardini spunta la bandiera confederat­a, il mio corpo mi dice una cosa chiara: se c’è un posto che posso chiamare casa, quel posto è l’America».

Vale anche sotto Trump?

«Penso allo scrittore James Baldwin che nei difficili anni Sessanta fece un viaggio nel Sud degli Usa. Gli dicevano: “Hai la tua vita ad Harlem, puoi andare a Parigi o in Svizzera, che bisogno c’è di scendere a Sud?” Lui rispondeva: “Perché i neri vivono là”. Voglio tenere a mente le sue parole, alzarmi la mattina e pensare che là fuori ci sono persone come me, altri outsider. Anche i bianchi sono degli outsider. Si parla molto delle discrimina­zioni razziali e mai di quelle di classe. Ma c’è una percentual­e altissima di bianchi che non ha voce. La loro rabbia a volte mi fa paura, ma posso capire la frustrazio­ne di essere esclusi e ridotti a un completo silenzio».

Ocean è il nome che ha preso negli Stati Uniti...

«Mia madre un giorno mi disse: “Tuo padre mi ha obbligato a darti un nome, ma ora lui è in prigione. Possiamo ricomincia­re dall’inizio, con un nuovo nome. Che ne dici di Ocean?”. Aveva imparato quella parola guardando una mappa nell’ufficio per il sussidio, aveva capito che “oceano” er a la vast it à tr a i l Vietnam e l’America, era una connession­e. È stata la prima volta in cui ho visto mia madre contenta di aver imparato un significat­o. Una gioia che non ho mai dimenticat­o. Così anni dopo, quando a scuola mi prendevano in giro per il mio nome e lei mi chiese se volevo cambiarlo, dissi di no, era troppo importante per lei».

Che cos’ha imparato nel salone di manicure di sua madre?

«A quantifica­re il lavoro. Ho visto la vita misurata nettamente: una manicure 25 dollari, mancia 3 dollari. Tutto era contabile. Alle volte mi vergogno quando vengo chiamato a leggere e mi pagano, non riesco a capire che cosa significhi. Nel salone ho imparato a parlare alle persone, perché quando mia madre lavorava doveva cercare di ottenere una mancia. Sapeva porre domande, ascoltare e andare in profondità. È quello che facciamo come scrittori, se fossimo solo concentrat­i su noi stessi scriveremm­o diari, non libri».

Il futuro della letteratur­a sarà di coloro che scrivono in una lingua che non è la loro?

«Tutti gli outsider vivono su una soglia: un luogo precario che a volte fa paura ma mantiene curiosi. L’elezione di Trump è il frutto di un’ansia di sicurezza e certezze. Ho imparato a mie spese i danni di questo bisogno di identità uniche e confini certi. Il mito del melting pot, come qualcosa che appiana le differenze in una comunità omogenea, è pericoloso. La letteratur­a deve fare resistenza a queste semplifica­zioni, conservare le incertezze. Tutti possiamo scrivere come fossimo stranieri nella nostra lingua: significa produrre uno scarto, non scrivere quello che la cultura dominante si aspetta, ma mantenere uno spazio aperto per la nostra solitudine, lo spaesament­o, le nostre gioie strane, le esperienze minoritari­e. Quando facciamo qualcosa di davvero creativo siamo tutti degli outsider».

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