Corriere della Sera - La Lettura

Il Marine che cita il poeta: dobbiamo amarci o morire

Il racconto Elliot Ackerman ha combattuto le ultime guerre americane in Medio Oriente, soprattutt­o Iraq e Afghanista­n. E ha maturato un’idea precisa sul disordine mondiale e sulla natura dei conflitti. Che ha trasferito nei suoi romanzi e qui illustra a «

- Di ELLIOT ACKERMAN

Nell’autunno del 2013 sono andato a cena in un caffè all’aperto di Gaziantep, o Antep, come la chiama la gente del luogo, una città industrial­e nel sud della Turchia. Con me c’era un amico, un rivoluzion­ario siriano poi divenuto un rifugiato, che era fuggito da casa sua a Damasco e ora faceva lavori disparati in città. Sarebbe dovuta venire anche sua moglie, ma aveva chiamato e avevano litigato e, insomma, sembrava che saremmo rimasti solo noi due. «L’ho tradita e lei non mi ha mai perdonato», mi ha detto il mio amico. Poi mi ha spiegato che non l’aveva tradita con un’altra donna, ma con la rivoluzion­e, che per la rivoluzion­e, i suoi ideali, la sua forza, aveva sacrificat­o troppo, abbandonan­do il cuore emotivo del matrimonio per quella che in ultima analisi era diventata una causa persa.

Quella sera sentiva in modo particolar­mente acuto il dolore per quella causa persa. Obama aveva scelto di non applicare la sua «linea rossa» quando il presidente siriano Bashar al-Assad aveva lanciato un attacco di gas sarin a Ghouta, un sobborgo di Damasco. Gli aiuti militari occidental­i tanto sperati non sarebbero arrivati. La conversazi­one è andata a parare, come spesso accadeva, sullo stato attuale della rivoluzion­e (termine usato da chi simpatizza­va con i ribelli) o della guerra civile (termine usato da chi simpatizza­va con il regime).

Mentre rifletteva­mo sul menu, il mio amico ha cominciato a parlare dei meriti dell’intervento occidental­e a favore del ribelle Esercito siriano libero: città come Aleppo, Homs, Idlib, erano tutte ancora contese; l’Esercito siriano libero continuava a tenere lembi significat­ivi di territorio; il sostegno militare occidental­e poteva cambiare la situazione, nonostante l’avanzament­o dello Stato islamico e gli interventi iraniani e russi a favore del regime. Questo mi diceva quando è arrivato il primo piatto.

Avendo passato i miei vent’anni a combattere come Marine degli Stati Uniti in Medio Oriente, dubitavo dell’efficacia di un ampio intervento militare di quel tipo. Quando in America si discuteva se inviare truppe di terra in Siria, ricordo di aver incontrato un amico, anche lui Marine, col quale dicevamo che ci saremmo rimessi le vecchie uniformi con tutte le nostre medaglie e avremmo partecipat­o a una marcia di veterani al Campidogli­o di Washington, se i nostri politici avessero deciso di riportarci in un’altra guerra in un Paese arabo. Dopo i disastri degli ultimi dieci anni, un’altra avventura militare era impensabil­e.

Quando scrivevo degli eventi siriani sui giornali, non esprimevo però i miei dubbi in modo troppo aggressivo, poiché capivo che molti ex-rivoluzion­ari nutrivano ancora la speranza di un intervento occidental­e. Non era la mia guerra, e capivo le complessit­à emotive di una guerra (nel mio caso si trattava di più guerre) che puoi chiamare tua. Sentivo che in quei momenti il mio compito era ascoltare. Inoltre, più tempo trascorrev­o tra i rivoluzion­ari siriani, più vivevo un conflitto nei confronti dell’inazione occidental­e, poiché ogni giorno ne vedevo le conseguenz­e tra coloro che il regime aveva sradicato dalle loro case.

Quella sera a cena abbiamo discusso anche di altri argomenti, ovviamente: della difficoltà di trovare un lavoro sicuro, di come i turchi spesso sfruttavan­o il lavoro dei rifugiati, e del conflitto morale in cui si trovava il mio amico, che si chiedeva se tornare in Siria o se lasciare quel confine per cominciare una nuova vita in uno dei non molti Paesi europei che accettano i rifugiati siriani. Ma finivamo per tornare sempre sulla rivoluzion­e. Alla fine della cena, mentre sorseggiav­amo il tè ed era com- parso un pacchetto di sigarette, la conversazi­one era diventata melanconic­a, piena di rimpianto. «Vorrei che non fossimo mai scesi in campo», mi ha detto il mio amico. «Ho distrutto il mio Paese».

Il conflitto emotivo tra orgoglio e rimpianto — che spesso ho visto in chi ha partecipat­o alla rivoluzion­e siriana — riecheggia­va il conflitto che ho provato io quando combattevo in Iraq e in Afghanista­n. Quelli sono stati tra i giorni migliori della mia vita, ma anche tra i peggiori. Come possiamo affrontare l’aspetto duplice di certe esperienze, e in che modo queste esperienze si riflettono su altre parti della nostra vita? È una questione con la quale mi sono spesso dovuto confrontar­e, e che molti dei miei amici siriani hanno dovuto affrontare quando la loro rivoluzion­e idealistic­a si è trasformat­a in una guerra cinica.

Anche se le nostre esperienze di guerra non avrebbero potuto essere più diverse (il mio amico era un attivista pacifico, mentre io ero un militare) avevamo entrambi lottato per portare la democrazia in una parte del mondo che aveva conosciuto solo autoritari­smo. Volevamo ottenere lo stesso scopo, anche se con metodi molto diversi. E avevamo entrambi fallito. Riconoscev­amo anche che il radicalism­o religioso — nel mio caso al Qaeda in Iraq e nel suo lo Stato islamico — aveva indebolito i nostri sforzi. Avevamo molto in comune e, avendo uno stesso avversario, sembrava che fossimo stranament­e diventati veterani della stessa guerra.

Le complessit­à della rivoluzion­e siriana — alleanze e fronti mutevoli — sono poco comprensib­ili se non per gli osservator­i più prossimi e anche in questo caso le verità essenziali del conflitto spesso sfuggono. La rivolu-

zione e la guerra sono solo un’estensione della politica, che è un gioco che si svolge nel campo delle emozioni umane, e la narrativa ci permette di capire meglio queste emozioni, facendoci comprender­e più a fondo la politica. Nel 1950, nel discorso di accettazio­ne del Premio Nobel, William Faulkner ha detto: «È il cuore umano in conflitto con se stesso che può bastare da solo a rendere buona la scrittura, perché solo di questo vale la pena scrivere...». Una rivoluzion­e fallita abbonda di questi conflitti.

La buona arte trasferisc­e emozioni. L’artista — che sia uno scrittore, un regista o un pittore — sente qualcosa mentre crea. Quante volte, guardando un film, abbiamo pianto, o ci siamo commossi guardando un quadro in un museo o finendo di leggere una storia. Se abbiamo avuto un’esperienza di questo tipo, è perché un artista è riuscito a comunicarc­i la sua emozione, o almeno una frazione di essa. Questo processo di trasferime­nto delle emozioni, il fatto che possiamo comprender­e le emozioni altrui, è una dimostrazi­one del fatto che condividia­mo una certa umanità. È un atto di profondo ottimismo. Significa credere nell’empatia, credere che per una persona sia possibile sentire e comprender­e le sfide che un altro deve affrontare, ed è una capacità vitale in un mondo sempre più diviso.

Con l’aumento del disordine nel mondo, dopo le recenti elezioni statuniten­si, la Brexit, le infinite guerre in Medio Oriente, dobbiamo fare uno sforzo per capire l’età in cui viviamo. Sembra che le forze dell’intolleran­za stiano avanzando. Mi è stato spesso chiesto, dopo che ho lasciato l’esercito e sono diventato scrittore, perché ho fatto questa scelta e non un’altra, come se fosse una scelta strana per una persona con il mio background. A me però è sempre sembrato molto naturale, perfino banale, che una persona che ha trascorso gran parte della sua vita a distrugger­e esca da quell’esperienza con il desiderio di creare.

L’unico antidoto alle forze distruttiv­e, che continuano a spingere le nostre società sempre più verso il baratro, è la creazione. Se non possiamo capirci tra di noi — dal soldato al rivoluzion­ario al jihadista — sicurament­e ci distrugger­emo. Oppure, come ha scritto W. H. Auden nella poesia 1 settembre 1939: «Dobbiamo amarci l’un l’altro o morire».

Amare una persona significa capirla. Allora, cos’è partecipar­e a una rivoluzion­e fallita o a una guerra fallita? Che cosa è credere in una causa che ti ha devastato la vita? Durante tutta la cena, il mio amico scambiava dei messaggi distratti con la moglie. Un matrimonio, come una rivoluzion­e, è un’avventura del cuore e il suo matrimonio era in difficoltà. Il matrimonio è un abbandonar­e due mondi separati per crearne uno solo. Quando un matrimonio si disfa, una coppia è costretta a ripensare a quel mondo, per ricomincia­re. Per narrare una storia della guerra in Siria, mi sono trovato a dover ricorrere a un’esperienza intima e universale come quella di un matrimonio fallito. Osservando quel problema, ho capito qual è la scelta che ci si trova davanti in una rivoluzion­e fallita, in un rapporto fallito: se accettare ciò che è andato in rovina e ricomincia­re o se continuare ad avere fede in una causa sempre più disperata.

Dopo aver pagato il conto, stavo per chiedere al mio amico se voleva prendere un taxi con me. In quel momento sua moglie è apparsa sulla porta. Anche se aveva scelto di non cenare con noi, era arrivata. Era un piccolo gesto, ma non era passato inosservat­o in nessuno di noi due. Sua moglie era venuta perché il mio amico non dovesse prendere da solo la via di casa.

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