Corriere della Sera - La Lettura

La mia anomala famiglia con una decina di nonni

- Di FABIO GENOVESI

Anteprima Fabio Genovesi torna in libreria a settembre con il nuovo romanzo «Il mare dove non si Trama Uno mi portava a pescare, un altro a caccia, un altro ancora a guardare gli uccelli. Perciò arrivai tocca». Pubblichia­mo le pagine iniziali in cui presenta ai lettori la sua (un po’ anomala) famiglia d’origine a scuola che sapevo riconoscer­e un fagiano e una carpa, ma non sapevo come si gioca a nascondino L’inizio delle lezioni Il primo giorno in classe sono rimasto a guardarli da lontano, i miei misteriosi compagni che avevano tanti giochi e pochi nonni

Com’è iniziata, nessuno lo sa. Forse un nostro antenato ha profanato la tomba di un faraone, forse ha fatto arrabbiare una strega o ha stecchito un animale che era sacro a un dio vendicativ­o, l’unica cosa certa è che da quel momento la nostra famiglia si porta addosso una maledizion­e spaventosa.

È brutto ma è così, è la prima cosa che ho imparato a scuola.

Anzi no, la prima l’ho imparata appena entrato in classe, e cioè che nel mondo esistevano tanti altri bambini della mia età, e questi bimbi avevano solo tre o quattro nonni a testa. Io invece ne avevo una decina.

Perché il mio nonno dalla parte di mamma aveva un sacco di fratelli solitari, che non si erano mai sposati e a una donna non avevano mai nemmeno stretto la mano, così da quella famiglia gigante ero venuto fuori solo io, che ero il nipote di tutti.

Infatti litigavano sempre per decidere chi mi portava in giro, e quando il nonno è morto è diventato ancora peggio, allora la nonna Giuseppina ha appeso un foglio al platano in cima alla strada, con sopra scritti i turni della settimana: lunedì a pesca col nonno Aldo, martedì a caccia col nonno Athos, mercoledì un gelato con Adelmo, giovedì a cercare gli uccelli col nonno Aramis e avanti così fino a farli contenti tutti. L’unico che sul calendario non arrivava mai era un giorno libero, da passare insieme ai bambini della mia età. Che invece fra loro si vedevano, e conoscevan­o un sacco di giochi pazzeschi che quella mattina a scuola sentivo per la prima volta: nascondino, campana, rubabandie­ra, gli bastava dirne uno e subito via a correre o a saltare secondo regole che per me erano assurde ma per loro normalissi­me, e invece guardavano strano me se gli chiedevo quante carpe aveva- no pescato quell’estate, o se avevano qualche penna di fagiano da scambiare.

Loro un fagiano non l’avevano visto mai, e una carpa non sapevano cos’era, e allora il primo giorno sono rimasto a guardarli da lontano, quegli esseri misteriosi che avevano tanti giochi ma pochissimi nonni, come se fossi finito su Marte in classe con gli alieni.

Infatti alla fine del primo giorno di scuola, mentre tornavo a casa pedalando dietro alla mamma, mi sentivo proprio come un astronauta che torna da una missione nello spazio, da un posto così lontano e impossibil­e che anche passando per le solite strade avevo paura di non trovare più la via del mio mondo. Che era una stradina a fondo chiuso dove ogni nonno si era costruito una casetta e ci abitavamo solo noi, e infatti all’inizio della via c’era proprio un cartello di legno con sopra scritto a mano:

BENVENUTI A VILLAGGIO MANCINI VIETATO ENTRARE

E come al ritorno di un astronauta, nella stradina c’ era una grande folla ad aspettarmi: erano i miei parenti, che non mi hanno lasciato scendere dalla bici, mi hanno circondato e volevano sapere com’era andata, come stavo, se mi avevano fatto del male.

E io non gli ho detto come stavo, per- ché non lo sapevo nemmeno io. Li ho solo guardati uno per uno, i miei tanti nonni, e mi pareva di vederli per la prima volta. Poi gli ho chiesto se da quel giorno potevo chiamarli zii.

«Ecco!», hanno urlato alla mamma. «Visto? Non ce lo dovevamo mandare a scuola!».

E io ero d’accordo con loro, infatti non volevo tornarci mai più. Però la mamma mi ha detto che sennò arrivavano i carabinier­i e mi portavano in prigione. Mi sono fatto spiegare com’era, la prigione, e in fondo era abbastanza simile alla scuola, con la differenza che toccava andare fino a Lucca. Allora ho insistito con la scuola, quei piccoli alieni sono diventati i miei compagni di classe, e i miei tanti nonni sono diventati lo Zio Aldo, lo Zio Athos, Aramis, Adelmo, Arno e via così. Tutti col nome che cominciava per A, come i loro genitori che si chiamavano Arturo e Archilda, fino all’ultimo nato che era il mio nonno vero, e però lo dovevano chiamare per forza Rolando. Ci hanno studiato un sacco, ci hanno litigato per nove mesi, e alla fine l’hanno chiamato Arolando.

La maestra stava spiegando la preistoria, era arrivata alle caverne dove vivevano degli uomini pelosi che camminavan­o gobbi e sembravano scimmie, ma io intanto disegnavo sul quaderno un dinosauro gigante. Perché mi dispiaceva troppo che a un certo punto i dinosauri erano spariti tutti, e allora questo qui lo facevo super forte, con le branchie per respirare sott’acqua e le ali per volare via dai pericoli, così se arrivava il diluvio universale o un’altra disgrazia lui si salvava, e quando spuntava sulla Terra la disgrazia più tremenda di tutte, e cioè gli esseri umani, lui poteva sgranocchi­arli via dal mondo in un momento.

Ma proprio mentre disegnavo i denti lunghi e tantissimi nella sua bocca spalancata, che era un punto delicato e ci voleva grande precisione, la porta della classe si è aperta di schianto, ha sbattuto contro il muro tipo una bomba e per la scossa mi è schizzata via la mano, con un frego lungo il foglio che ha sciupato il lavoro di una mattina.

Però di solito le scosse funzionano così, le prendi e ti si ferma il cuore per un attimo, poi ti calmi e tutto torna a posto. Qua invece no, dopo la scossa ho alzato gli occhi e ho visto cosa succedeva, e allora la paura è diventata cento volte peggio. Perché lì dritto sulla porta mezza abbattuta c’era lo Zio Aldo, con la sigaretta in bocca e quegli occhi stretti che gli venivano quando succedeva qualcosa che lo faceva arrabbiare, tipo il vino che diventava aceto o un semaforo che diventava rosso.

E forse pure la maestra conosceva quello sguardo, perché all’inizio è saltata su e gli ha chiesto Ma lei chi è!, poi però lo zio le ha indicato i banchi e lei a testa bassa è venuta a sedersi in prima fila insieme a noi.

«Allora bimbi, state attenti» dice lo zio, con la voce che sembra un posacenere di marmo sbattuto contro un muro di cartavetra. «Stamani vi dovete scordare tutte le cazzate che vi insegnano qui. Stamani parliamo di cose serie. State zitti e non rompete le palle e imparate subito e bene, intesi?». Facciamo tutti di sì, pure la maestra. «Bene. Allora cominciamo. Datemi la rete di ferro». Ma la rete di ferro non c’è. «Pace, va bene anche il filo di ferro». Ma in classe non abbiamo nemmeno quello.

«Eh? Ma non c’è nulla in questa scuola! E vabbé, sentite, ve lo spiego a voce come si fa, ma state zitti e fermi che sennò mi arrabbio e diventa un casino».

Strizza la sigaretta fra due dita, fa una tirata così forte che la punta luccica e poi prende fuoco, se la strappa di bocca e con un pizzicotto la fa volare verso la finestra. Solo che la finestra è chiusa, la sigaretta picchia nel vetro e rimbalza per terra sotto il banco di Mirko Turini. Mirko fa per allontanar­la, ma lo zio urla «ho detto zitti e fermi!» e allora lui rimane così, più fermo che può, cercando di soffocare senza fare rumore.

Mentre lo zio comincia a ragionare del posto giusto per tirare su un pollaio, che deve essere scostato da casa perché la cacca delle galline puzza, ma non troppo lontano sennò non senti quando arrivano le volpi e le faine.

E tutti lo ascoltano attenti, anche se non capiscono una parola. Tutti tranne me, che invece capisco anche troppo bene. Perché di come si costruisce un pollaio ne abbiamo parlato proprio ieri, che lo zio voleva portarmi a rubare i cachi nel campo dello Zio Arno. Il campo sta in fondo alla nostra via, e se Arno lo vede gli spara col fucile caricato a sale, però se ci sono anch’io no. Se ci sono io parte un colpo, lo Zio Aldo gli urla Sono col bimbo, sono col bimbo! e allora Arno spara solo per aria, urla Ladro, ladro maledetto! e mentre va a cercare un bastone noi scappiamo.

Però ieri non ci potevo andare, dovevo finire la lezione. «La che?». «La lezione». «E che è questa novità». «Ora vado a scuola zio, e la maestra ci dà la lezione da fare a casa».

«E quanto ti paga la maestra per questa lezione?». «Nulla, credo. La faccio gratis». «Ecco, e allora se la fai gratis la puoi fare quando ti pare, anche mai». «Ma la maestra poi si arrabbia». «E con che diritto? Se non ti paga non può pretendere nulla. Guarda che lei a scuola non ci viene mica gratis eh, la pagano». «Davvero?». «Certo, sennò col cazzo che viene. Infatti la lezione la dovrebbe fare lei, però non ne ha voglia e la scarica su di te. Non farti fregare, lascia perdere questa scemenza e andiamo».

«Ma non posso zio, non sono tranquillo. Mi manca solo questo problema qui di matematica, fammelo fare e poi si va».

«Che palle! E va bene, dài, fammelo vedere che si fa insieme. Ti ho insegnato a scrivere, posso insegnarti anche a fare i conti».

E questa cosa dello scrivere è vera. Quando ero piccolo piccolo, passavo le sere con lui e gli altri zii e col nonno Arolando, che era ancora vivo e ritagliava insieme a noi tante lettere da un rotolone di carta giallo, lettere grandi che poi appiccicav­amo una dietro l’altra su un panno rosso e diventavan­o parole, e servivano come striscioni nei cortei del partito comunista. È così che ho imparato a scrivere, mi facevano vedere com’era fatta la A e io ne ritagliavo un sacco, poi la B, la C e avanti così, infatti quando è cominciata la scuola e la maestra ci ha spiegato l’alfabeto io lo sapevo già benissimo. Anche se all’inizio ero confuso, perché secondo me mancavano due lettere. Lei ha detto di no, che c’erano tutte dalla A alla Z, e allora ho capito che, anche se gli zii me ne facevano ritagliare tante, la falce e il martello non erano nell’alfabeto. E da lì non ho più avuto problemi con l’italiano.

Con la matematica però sì, e tantissimi. Non è solo che non la capisco, è che la matematica mi mette proprio tristezza, mi basta pensare che esiste e sento una cosa amara in gola come quando mi capita in mano una foto del nonno Arolando che sorride, e io gli volevo tanto bene e mi sembra così ingiusto che lui, come i dino- sauri, si è estinto e non ritorna mai più. E quello che non ritorna mai più, nel caso della matematica, è il tempo della vita che butti via mentre cerchi di risolvere i suoi problemi assurdi, come appunto quello di ieri:

Pino il contadino possiede 20 galline, che ogni giorno producono 10 uova fresche. Un mattino, però, Pino si sveglia e scopre che 5 galline sono scappate dal pollaio e altre 5 sono state rubate dalla volpe. Povero Pino, quante uova avrà quel giorno da portare al mercato?

L’ho letto a voce alta, e per un attimo ho davvero sperato che lo zio mi desse la soluzione. Senza spiegazion­i, senza farmici arrivare col ragionamen­to, solo il numero delle uova e addio compiti. Poi ho alzato gli occhi e ho visto il suo sguardo spalancato nel nulla, e ho capito che non sarebbe andata così. Ha cominciato a scuotere la testa con una smorfia di schifo sulla bocca, mi ha strappato il quaderno di mano e l’ha strizzato forte come il collo di uno che ha fatto una cosa brutta.

«Ma che è questa roba! Come fanno a scapparti cinque galline in una notte, come fa una volpe a fregartene cinque in un colpo! Questo Pino è un coglione, ma cosa vi insegnano a scuola?». «Non lo so zio. Ma la soluzione la sai?». «Certo che la so! La soluzione è zero! Quel coglione di Pino non vende nemmeno un uovo, scemo com’è di sicuro sba- glia strada e al mercato non ci arriva nemmeno!».

Ha detto così, ha preso la penna e ha disegnato uno zero sulla pagina grosso come la mia testa. Lo ripassava così tanto e così forte che sembrava una ruota che correva impazzita, poi un vortice che girava e girava pieno di rabbia, e ha smesso solo quando ha bucato il foglio e un bel po’ di quelli sotto. Poi mi ha stretto un braccio e mi ha tirato via, fuori all’aria aperta piena di uccelli che siccome erano furbi scappavano lontano da lui, e mi ha liberato dalla morsa solo quando siamo arrivati in fondo alla strada, per sdraiarci a terra e passare sotto la rete dello Zio Arno.

Ma intanto lo Zio Aldo ci rimuginava ancora, perché mentre strisciava­mo come serpenti in mezzo al granturco continuava a sibilare Dieci galline in un colpo... che imbecille... poveri bimbi cosa vi insegnano, poveri bimbi...

Poi la giornata è finita ed è arrivata la notte, e nella mia famiglia la notte non porta mai consiglio. Anzi, peggiora le cose. Ecco perché al Villaggio Mancini, se succede una roba che ti fa arrabbiare e lì per lì faresti qualcosa di brutto, conviene farlo subito senza pensarci, perché se arriva la notte ribolli ancora di più e la mattina dopo è cento volte peggio. Infatti la mattina dopo era stamani, ed ecco che lo zio è venuto a scuola, ha sequestrat­o la classe e ci spiega come si costruisce un pollaio serio.

«In cima ci mettete un bel giro di filo spinato tutto intorno. Anzi, due giri. O anche tre, il filo spinato non basta mai. Così, se per sbaglio una gallina tenta di scappare o qualche bestiaccia prova a entrare, la mattina dopo la trovate impiccata lassù che dondola, e risolvete anche il problema di cosa mangiare per cena. Capito ragazzi? Oh, avete capito o no!».

La fine delle lezioni Al termine del primo giorno di scuola mi sentivo proprio come un astronauta che torna da una missione nello spazio

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy