Corriere della Sera - La Lettura

Il libero mercato (che batte lo Stato) non dà la libertà

Si è inceppato il progetto di Hayek e Mises

- Di DANIELE GIGLIOLI

Non si trattava solo di ideologia. La marcia trionfale con cui il neoliberal­ismo ha spazzato via in un breve volgere di anni — il cui inizio è convenzion­almente associato all’ascesa di Ronald Reagan e Margareth Thatcher — un intero secolo di pratiche governamen­tali come il welfare state, l’intervento statale nell’economia, l’idea stessa di poter pianificar­e uno sviluppo sociale non spontaneo, era dovuta al fatto che alla sua base non c’era solo una teoria economica, ma un progetto antropolog­ico, un dispositiv­o di civilizzaz­ione, una politica della vita: l’unica, col senno di poi, che abbia saputo fronteggia­re in modo creativo quella crisi della modernità che aveva oppresso tutto il Novecento. Un progetto coerente, una teoria, nel più alto senso del termine, su quale sia e soprattutt­o quale possa essere la posizione dell’uomo nel cosmo, di portata affine a quella delle grandi religioni, capace di articolare ciò che è sempre e ciò che è ora.

È questa l’ipotesi da cui muove Il rovescio della libertà (Quodlibet), il nuovo saggio di Massimo De Carolis, cui si devono già libri importanti come La vita nell’epoca della sua riproducib­ilità tecnica (Bollati Boringhier­i) e Il paradosso antropolog­ico (Quodlibet). De Carolis non spreca tempo con gli apologeti tardonovec­enteschi che accompagna­rono il progetto quando era già in fase operativa, e risale alla radice della teoria, formulata tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta da autori austriaci come Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek, destinati a esercitare grande influenza nel mondo anglosasso­ne, e tedeschi come Walter Eucken, Alexander Rüstow, Wilhelm Röpke, i padri ordolibera­listi dell’economia sociale di mercato europea. Pur tra differenze e polemiche che divisero i due gruppi (più fautori di una totale deregulati­on gli austro-americani, più disponibil­i a una coordinazi­one statale i tedeschi), il neoliberal­ismo ha in comune per De Carolis due assunti: intercetta­re e incoraggia­re la crescente dinamizzaz­ione della società che la modernità ha messo in moto; e porre il rapporto di scambio mercantile, basato sulla libera fluttuazio­ne dei prezzi, a paradigma dell’intero spettro delle interazion­i significat­ive possibili tra gli esseri umani. Due opzioni controcorr­ente all’epoca in cui vennero formulate, quando trionfavan­o i totalitari­smi, il mondo anglosasso­ne rispondeva al crac del 1929 con un forte intervento statale nell’economia, e tutti si preparavan­o alla guerra.

Per dinamizzaz­ione della società De Carolis intende la tendenza — insita da un lato nella capacità trans-storica della specie umana di distaccars­i dal qui e ora ambientale per progettare il mondo in vista del futuro, dall’altro in una modernità intesa come liberazion­e dai vincoli, accelerazi­one del tempo storico, ricerca del nuovo piuttosto che dell’equilibrio — a ricavare valore non tanto da ciò che già c’è, ma piuttosto da ciò che si scommette che ci sarà: un investimen­to sul possibile, un «non ancora» cui affidare le proprie speranze di successo. È su questo che la modernità entra in crisi a fine Ottocento, quando si accorge che non sa governare l’enorme incremento di possibilit­à, relazioni e interazion­i che lei stessa ha promosso. Chi può prevederle tutte? La soluzione novecentes­ca è stata un enorme potenziame­nto della sovranità statale, semp re d i nu o vo re i t e r a n d o , te s t e Ca r l Schmitt, quella fondazione archeologi­ca dello Stato moderno che era stato il Leviatano di Hobbes: un dio mortale, un detentore unico della decisione sovrana investi- to dell’autorità di sospendere la normalità e decretare lo stato di emergenza. Col guaio, oltre agli intollerab­ili costi etici e umani di questo scambio tra sottomissi­one e protezione che oggi suscita rimpianto in molti, di dover constatare che la dinamizzaz­ione è in realtà uno stato di emergenza permanente, perché la situazione cambia di continuo e nessuno può tirare il freno della storia.

In questa emergenza permanente si insedia il progetto neoliberal­e, che aspira a sostituire al dispositiv­o sovrano della decisione (generante subordinaz­ione, e non a caso i nemici dell’ancien régime dovettero inventarsi come nemico un feudalesim­o che non esisteva più da secoli) il principio mercantile della scelta, idealmente compiuta tra soggetti liberi che nulla vincola a fare quella scelta invece che un’altra, e che si regolano in base al calcolo razionale dei propri interessi fondato su aspettativ­e ricorsive (faccio xo y perché mi aspetto che lui si aspetti che io faccia xo y, e così via). Non si tratta più di porre un argine esterno alla complessit­à, ma di governarla dall’interno, mettendo chiunque in condizione di farsi imprendito­re della propria vita, il che rispecchia meglio di ogni soluzione sovrana l’ordine cosmico — come è fatto l’umano, qual è il suo desiderio, come mettere a frutto le sue facoltà cooperativ­e bonificand­o il conflitto in competizio­ne.

Ma qui, insieme alle ragioni del trionfo, si trovano per De Carolis anche quelle del tramonto. La civiltà neoliberal­e non è stata capace di mantenere ciò che prometteva perché, al netto delle applicazio­ni, nella teoria stessa c’era un punto cieco, un rifiuto di vedere. Se la decisione sovrana non basta a neutralizz­are la distruttiv­ità umana, anche la scelta mercantile può solo illudersi di aver sconfitto ciò che nega, e cioè il permanere delle relazioni di potere in una vita schiacciat­a senza residui sotto il principio di prestazion­e. Crescita delle diseguagli­anze, lobbying, enormi oligopoli finanziari e tecnologic­i, revolving doors tra governi e consigli di amministra­zione, rifeudaliz­zazione di rapporti sociali talmente asimmetric­i da costringer­e i soggetti a continui atti di subordinaz­ione, dipendenze personali meno evidenti ma non meno costrittiv­e di quelle moderne, sono sotto gli occhi di tutti. Col paradosso che, a fronte di questi fallimenti evidenti, la presa sulla vita dei dispositiv­i neoliberal­i resta più forte che mai e tra governanti e governati circola un senso di impotenza diffuso.

La dinamizzaz­ione è inceppata. La decisione si traveste ma non sparisce. La scelta conta sempre meno. I veramente liberi — come in passato — sono pochi. Il pluralismo si nutre di ostilità. Al neoliberal­ismo il merito di aver mostrato che le risposte novecentes­che, comunque insostenib­ili, più che sbagliate non erano rivolte alle domande giuste, quelle domande che esso invece ha saputo porsi. A quelle stesse domande — che coinvolgon­o in ultima istanza l’animale umano in quanto sempre incompleto, progettant­e, impastato di possibile, bisognoso, diceva Kant, di colmare il vuoto della creazione che non gli ha prescritto fini certi —, è urgente trovare altre risposte. Inutile rimuginare sulle vecchie. Il futuro è più che mai aperto. L’ultimo insegnamen­to che dai maestri del neoliberal­ismo si può trarre è quello di affrontarl­o senza rimpianti.

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