Corriere della Sera - La Lettura

261 chili di umiliazion­i e offese Cronaca della mia fame

Roxane Gay racconta in «Hunger. A Memoir of (My) Body» cose significa essere obesi in una società che ha il terrore del grasso: un percorso a ostacoli fisici ed emotivi dove il dolore è onnipresen­te. «La storia del mio corpo è la storia della mia vergogna

- di SERENA DANNA @serena_danna © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Duecentose­ssantuno sono i chili raggiunti da Roxane Gay, scrittrice e docente universita­ria, sul finire dei vent’anni. Nonostante il suo Hunger (letteralme­nte «Fame»), appena uscito negli Stati Uniti, sia innanzitut­to un saggio su cosa significa essere obesi in una società che ha il terrore del grasso, è l’unico numero presente in tutto il libro. Perché, avverte Gay, anche i nutrizioni­sti e i medici — con le loro tabelle, misurazion­i e il panico dell’obesità— sono complici del problema. Così lo chiamano i suoi genitori, ricchi americani di origine haitiana, che portano la figlia adolescent­e in costosi centri per dimagrire e si augurano a ogni acquisto extra-large di non mettere più piede nei negozi per taglie forti. Se a casa è difficile, fuori è peggio: il corpo di Roxane Gay è un problema per gli sconosciut­i che la offendono in strada e online, per i conoscenti che «si improvvisa­no medici esperti e sciorinano tutti i problemi connessi con l’essere grasso», per i bambini che — con la loro sincerità che terrorizza l’autrice — domandano ad alta voce ai genitori «come mai quella signora è così grande?».

«La storia del mio corpo — scrive Gay, 43 anni, intellettu­ale di riferiment­o per un nuovo femminismo che saltella dal culto di Beyoncé a Black Lives Matter — è la storia della mia vergogna. Mi vergogno per come mi mostro e per la mia fragilità. Mi vergogno di sapere che il cambiament­o del mio corpo è nelle mie mani, ma di non riuscire a cambiarlo». Lei, comunque, ci prova ogni mattina: «Mi sveglio con le migliori intenzioni di condurre una vita più sana. Tutte le mattine, al risveglio, mi sento come libera dal mio corpo e dai miei fallimenti, e in quei momenti penso: oggi farò le scelte giuste, mi allenerò, mangerò porzioni piccole, farò le scale». La realtà però tra- disce le aspettativ­e. Gay salta la colazione perché le prime ore del giorno, complici le abbuffate della sera prima, è l’unico momento in cui non ha voglia di ingerire nulla. A pranzo mangia un panino, a volte due, ma è il pomeriggio il momento in cui «la fame» inizia a manifestar­si: biscotti, patatine, snack, ancora biscotti. Uno, due, quindici. Così fino a sera, quando la scrittrice si arrende, «perché tanto, mi dico, non ho mangiato tutto il giorno». Il contenuto del piatto va completame­nte eliminato, le porzioni devono essere enormi e consumate velocement­e. Alla fine, quando anche l’ultimo pezzetto di cibo è stato consumato, ci spiega Hunger, le sensazioni.sono solo due: nausea e sollievo. Non è sempre così: nei giorni «buoni» il ritmo si spezza, ma i giorni «cattivi» — ricorda l’autrice — sono sempre più numerosi.

La vita delle persone obese è un percorso a ostacoli fisici ed emotivi, dove il dolore — come il disagio — è onnipresen­te. «Quando mi muovo sento uno a uno tutti i chili in più che porto. Non ho forza né energia — si legge in Hunger — e quando cammino le cosce e i polpacci mi fanno male, così i piedi e la schiena». Una passeggiat­a in compagnia non è mai davvero rilassante perché si è costretti continuame­nte a trovare giustifica­zioni alla lentezza, o — peggio ancora — a incontrare lo sguardo comprensiv­o degli altri. Anche gli amici feriscono, loro malgrado. Lo fanno quando commentano i corpi degli altri nelle serate conviviali, quando postano su Instagram le foto in cui sono soddisfatt­i per la forma fisica raggiunta, i chilometri di corsa effettuati, i chili persi: «Mi arrabbio — scrive Gay — perché stanno facendo cose che io non posso fa- re». È «gelosa e frustrata» l’autrice — decine di libri all’attivo e una cattedra di inglese alla Purdue University — perché vuole essere anche lei parte di quel mondo di successi e obiettivi raggiunti. E invece, il trattament­o riservato alle persone obese prevede una serie di piccole e grandi frustrazio­ni nel mondo dove trionfano le pubblicità della Weight Watchers di Oprah Winfrey e le copertine dei «vincitori e sconfitti dell’estate» (riferiti a chi è riuscito a perdere peso). Gay ha una grande capacità di trascinare il lettore in quelle situazioni: in aereo per esempio, dove i corridoi sono troppo stretti, i seggiolini sempre piccoli e le hostess insistono nel voler controllar­e se la cintura è veramente allacciata. O nei ristoranti di Los Angeles, con le sedie di design bellissime e super moderne ma impossibil­i per una persona obesa, e le cene che terminano per la sofferenza di stare seduti sempre sul ciglio. I negozi, poi, sono off-limits: «Comprare vestiti è una disavventu­ra, una delle tante umiliazion­i che le persone grasse devono subire», scrive Gay. Così succede spesso che la scrittrice, diventata molto popolare con la raccolta di saggi Bad Feminist, finisca con il comprare vestiti maschili, tshirt grandi e accoglient­i che riescono a essere comode anche per chi ha superato la taglia 52. È una necessità per Gay ma anche una ribellione a quella che forse è la conseguenz­a più dolorosa della «fame»: «Essere grassa annulla il mio sesso: sono una donna, ma spesso le persone mi scambiano per un uomo, per strada mi chiamano “signore”».

Eppure non è stato sempre così, le fotografie dell’infanzia lo dimostrano. E Roxane Gay guarda spesso quelle istantanee color seppia «per ritrovare l’evidenza che eri bella, che sei stata bella e dolce». «Anche io lo ero — scrive —, dietro quello che vedi adesso c’è ancora una bella ragazza dolce». Nello spazio che collega le due Roxane c’è una violenza sessuale di gruppo subita dalla scrittrice a 12 anni: «fuoco amico» condotto e organizzat­o da un uomo di cui era innamorata. Gay lo rivela nei primi capitoli di Hunger, trasforman­do il libro in una doppia narrazione, dove il racconto della sua fame si unisce a quello del trauma che l’ha generata. È dopo lo stupro che Gay inizia a mangiare senza sosta: «Ero sola e spaventata e il cibo mi offriva una soddisfazi­one immediata, mi dava conforto quando avevo bisogno di essere confortata e non sapevo come chiederlo a chi mi amava. Il cibo aveva un buon sapore e mi faceva sentire meglio. Era l’unica cosa alla mia portata, il mio unico sollievo, un amico perché costante: quando mangiavo non avevo bisogno di altro». I chili costruisco­no un’armatura, uno scudo per difendere ciò che di bello era rimasto della giovane Roxane: «Avevo un corpo di cui mi vergognavo ma che mi faceva sentire al sicuro e, più di ogni altra cosa, io volevo sentirmi al sicuro»

Hunger non è una storia a lieto fine, né tantomeno un caso di successo. «Il mio corpo è una gabbia, sto cercando ancora di trovare l’uscita, da vent’anni la cerco», avverte Gay che è riuscita però a scovare alcuni benefici nella sua condizione. «Vivere nel mio corpo ha fatto crescere l’empatia verso altre persone e verso la verità dei loro corpi», ammette la studiosa che crede, anche grazie alla sua condizione, di aver compreso davvero l’importanza dell’inclusivit­à e dell’accettazio­ne delle diversità. Tuttavia non c’è consolazio­ne possibile: Gay non ama l’etichetta di «sopravviss­uta», ma sa che sarà per sempre una «vittima», dei suoi carnefici ieri, come degli occhi degli altri oggi. Ogni giorno fa i conti con la sua carne domandando­si cosa sia: «una fortezza», «una prigione», «la scena del crimine»? Di una cosa Gay è convinta, l’unico metodo per «guarire» è uscire dal silenzio: «Sono stata a lungo silente — scrive — in un mondo dove le persone credono di sapere le motivazion­i del mio corpo come di ogni corpo grasso. E ora, ho scelto di non stare più in silenzio».

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