Corriere della Sera - La Lettura

Le vite parallele di due piccoli infelici

Epopee minime Nicola Bolaffi ha scritto un romanzo dall’andamento onirico con protagonis­ti Greta e Otto. E una lezione per imparare la cosa più indispensa­bile che ci sia: il superfluo

- di ROBERTA SCORRANESE rscorranes­e@corriere.it

Ache cosa assomiglia la mancanza di qualcuno che non c’è più? A volta sembra una barca alla deriva, forse una chiatta, simile alla Zattera della Medusa dipinta da Théodore Géricault. È così che Greta, bambina dai capelli rossi e con una madre indurita dalle fatiche, sogna il papà che non ha mai conosciuto, «volato in cielo» a causa di un asfalto bagnato. Greta non sa che a pochi chilometri dalla sua casa torinese c’è un altro bambino, coetaneo, che nei sogni disegna treni in corsa o dei piccoli «8» che si ripetono all’infinito, in una specie di fantasia suprematis­ta inconsapev­ole. E che si chiama Otto, come il numero palindromo e come un artista, Otto Dix, morto poco prima che entrambi nascessero, interprete di una umanità perduta. Meglio: sfasciata.

La sottile armonia degli opposti, romanzo di Nicola Bolaffi (Garzanti), è solo in apparenza la fiaba di due bambini dall’infanzia ferita che si incontrera­nno per un gioco della sorte. In realtà, è qualcosa di più. È un romanzo sull’arte, sul suo potere immaginifi­co e sulla sua capacità demiurgica di cambiare la vita alle persone. La struttura narrativa è di quelle ormai «classiche», come alcuni recenti romanzi di formazione (per esempio, La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano) ci hanno insegnato ad apprezzare: le vite parallele di due bambini diversi ma uguali e destinati a incontrars­i.

Il piccolo Otto che, a dispetto di una situazione finanziari­a agiata, sconta il male oscuro della madre, sfiancata da una depression­e sempre più grave; e la piccola Greta, orfana di padre, figlia di una donna che per amore si è trasferita in una città difficile e che adesso, da sola, sfiorisce nei massacrant­i turni in fabbrica, lasciando sempre più spesso la bambina tra le braccia di una maestra senza figli. La maestra Pettinori, mite e intelligen­te, dalla quale Greta imparerà la cosa più indispensa­bile nella vita: il superfluo.

Cioè la pittura di Kandinskij, il gioco degli scacchi, l’ironia tagliente delle parole di Proust, il latte col miele, il calore di un gesto protettivo. Otto, dal canto suo, scopre il tennis. Nella geometria di quelle mosse via via più raffinate, impara a trovare una chiave possibile per le domande che ancora lo ossessiona­no: perché la mamma sta male? E perché papà è sempre solo, avvolto da una specie di nuvola di pensieri che lo allontana da tutti?

Questa scioltezza narrativa nel travasare l’arte figurativa nel tennis non deve stupire in Nicola Bolaffi: nato nel 1975, figlio di Alberto, quindi discendent­e della famosa famiglia torinese di collezioni­sti ed esperti di filatelia, Bolaffi alimenta almeno «due vite», quella di pittore e quella di tennista — è maestro nazionale della Federazion­e Italiana.

E così, intersecan­do la pittura di Klimt alle volée o ai rovesci, crea un mondo parallelo. Simbolico. Fatto di figure inventate (come la nuvola che sembra un «cestino pieno di bomboloni») che fanno compagnia alle serate di Greta; o di mosse che si concludono con un’esattezza quasi magica, anzi, matematica, come i movimenti che fa Otto a ogni set sul campo da tennis.

E la cosa sorprenden­te, che affiora poco alla volta (e che in fondo è il vero tessuto del romanzo), è che questo mondo in apparenza così complesso è quello (elementare) dei bambini. Lo sguardo infantile coglie quelle sottili connession­i tra le cose che solo un artista è in grado di percepire: la libertà con la quale uno come Klee ha trasformat­o le città in coloratiss­imi acquerelli, per esempio, è propria dell’infanzia. La disinvoltu­ra con cui Schiele ha dipinto la follia è una forma di fanciullez­za. Alla fine questo è il cuore della teoria di Kandinskij (citata nel libro) secondo la quale l’unica forma d’arte che si possa contemplar­e è quella che scaturisce da uno sguardo purissimo. E senza forzature né padroni, né scadenze. Senza mondo degli adulti, insomma.

No, l’arte non tollera l’universo dei grandi: e infatti sarà proprio quando entreranno in quel mondo che Otto e Greta si perderanno. Lui in una incomplete­zza esistenzia­le alla quale non sa dare un nome, lei nel buio di un’adolescenz­a difficile, altalenand­o sull’abisso delle dipendenze. Prima che Otto e Greta si incontrino, Bolaffi fa succedere cose. Ci sono persone che muoiono, altre che si redimono, altre ancora che se ne vanno. Personaggi entrano ed escono di scena, passando sulla terra leggeri. Ma le vite dei due ragazzi, al pari di una composizio­ne di Mondrian, sembrano l’una dipendente dall’altra. Inscindibi­li. Come se un dio astrattist­a si fosse divertito a tessere delle partiture di colore tanto arbitrarie quanto inevitabil­i.

Si incontrera­nno, certo. E a cucire i due estremi della storia sarà un dipinto tra i più coraggiosi mai immaginati: la

Danae di Klimt. Emblema della fertilità universale (nel mito, Danae venne fecondata da Zeus che le si presentò in forma di pioggia dorata), la donna qui rinuncia alla postura sdraiata, come ce l’ha consegnata l’iconografi­a classica e si ripiega in posizione fetale. Auto-generante. Persa nella seminazion­e di se stessa. Quest’autarchia creatrice è la metafora più compiuta dell’arte, che vive e gode di sé.

Un po’ come l’universo dei bambini. Un po’ come le vite — mai adulte — di Greta e Otto. Un po’ come questo romanzo piacevole, dall’andamento onirico, quasi fosse un sogno scritto.

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