Corriere della Sera - La Lettura
Russia 1943, l’eroismo dei fantasmi straccioni
Guerre La sconfitta, la ritirata, la rottura dell’accerchiamento, la prigionia. Le voci dei sopravvissuti ripercorrono l’esperienza dei soldati italiani in Urss. L’assurdità degli alpini mandati in pianura con l’attrezzatura da montagna
Aprima vista il libro di Giulio Milani I naufraghi del Don (Laterza) percorre strade ben note: la campagna di Russia e la disastrosa ritirata dell’Armir. Però, appena lo si apre, ci si accorge che la musica è differente. Alla prima pagina si fa la conoscenza di Terzo Consoli mentre si avvia in treno verso la naja. Due pagine dopo si incontra Elio Borgobello alle prese con i veci della caserma. Poi è la volta di Angelo Neri, alpino, e di Ubaldo Sanzani, pilota, e poi altri ancora.
La polpa del libro è formata dall’intreccio delle storie vere di circa una ventina di individui che hanno partecipato in unità e con gradi differenti alla campagna russa: 14 sono interviste fatte dall’autore, altre integrazioni di memorie già edite. Seguiamo questo piccolo plotone nei mesi precedenti alla spedizione e poi in partenza con il Csir (Corpo di spedizione italiano di Russia), osteggiato da Hitler, ma fortemente voluto da Mussolini che, entrato in guerra per sedere al tavolo di un sicuro trionfo, non vuole rinunciare al piatto più ricco e prestigioso.
Dovrebbe essere una rapida vittoria in tre mesi e invece la straordinaria galoppata militare viene fermata dalla resistenza sovietica e dall’inverno russo. Le forze dell’Asse si trovano così a presidiare un fronte immenso e il corpo italiano, questa volta su richiesta di Berlino, viene ampliato nell’Armir (Armata italiana in Russia) di circa 200 mila uomini.
Vediamo quindi i testimoni (informatori li chiama Milani) insediarsi sulle rive del Don, tra difficoltà logistiche e insensatezze strategiche, come i 57 mila alpini, partiti con l’attrezzatura da montagna per combattere sul Caucaso, che si ritrovano del tutto spaesati in una pianura grande come un oceano. Veniamo a sapere degli attriti con i tedeschi, che la fanno da padroni e trattano con feroce brutalità popolazioni e prigionieri, ottenendo che la guerra di sopravvivenza del sistema sovietico si trasformi nella Grande guerra patriottica, vissuta con ardore e determinazione da ogni russo fin nel più piccolo villaggio. Conosciamo armi, uniformi e dotazioni dei nostri, i luoghi dove sono assegnati, chi sono gli alleati e i nemici.
Si giunge così alla fine del 1942, quan- do i russi cominciano una serie di attacchi sul Don nel quadro della grande offensiva tesa a isolare e accerchiare le forze tedesche a Stalingrado. Assistiamo alla progressiva demoralizzazione di fronte alla superiorità russa per uomini e mezzi, alla resistenza ai primi attacchi e poi al crollo del fronte e alle varie fasi della disastrosa ritirata a piedi per centinaia di chilometri nella pianura innevata, con 40 gradi sotto zero, senza viveri e senza mezzi di trasporto.
Condividiamo le inenarrabili sofferenze dei militari italiani senza il velo romanzesco di dignità patriottica che le ha rese in qualche misura accettabili in molti libri più famosi. Però qui il sapore è quello della verità cruda, che mescola coraggio e codardia, crudeltà e assoluta umanità, egoismo cieco e straordinaria solidarietà. Valga per tutti l’episodio finale di Nikolaevka, dove un’armata di fantasmi, con poche armi, vestita di stracci, con ai piedi stoffa e paglia, sfinita da giorni e giorni di cammino praticamente a digiuno, si butta con la forza della disperazione contro le linee russe per rompere l’ennesimo accerchiamento. Gli scontri sono durissimi, si sfiora il massacro, ma alla fine il risultato è positivo: per i russi si tratta di un piccolo insuccesso tattico nel quadro di un’offensiva vittoriosa, per gli italiani la conquista a carissimo prezzo della chiave per tornare a casa. Il contrappunto tragico è che al momento di lasciare la cittadina bisogna abbandonare, tra scene strazianti, i feriti più gravi: coloro che con il proprio sacrificio hanno permesso la vittoria.
Dopo Nikolaevka la ritirata è praticamente finita e la vicenda militare dell’Armir conclusa, ma siamo solo a due terzi del libro e la storia giunge a un bivio.
Da una parte si seguono i travagli orribili dei prigionieri durante il calvario dello smistamento e del trasferimento verso i campi di prigionia. È in questa fase che muore la gran parte dei catturati, per fa- me, mancanza di cure, sfinimento. Secondo l’autore non si tratta di una deliberata decisione sovietica, come invece è stato nei confronti di tedeschi e ungheresi, per ritorsione contro gli eccidi compiuti durante l’occupazione. Nel caso degli italiani trionfano piuttosto la disorganizzazione e l’incapacità di fronteggiare un fenomeno di dimensioni inaspettate in un quadro di miseria generalizzata.
Le cose migliorano quando si arriva ai campi di prigionia veri e propri, dove bene o male si organizza un’esistenza, se non proprio normale, perlomeno con parvenze di dignità.
La vicenda dei prigionieri in Russia viene seguita anche nel lunghissimo strascico postbellico, quando nel clima della guerra fredda e di una feroce lotta politica prendono a circolare false voci di migliaia di italiani trattenuti in Siberia a lavorare come una sorta di riparazione dei danni di guerra. La mancanza di dati chiari sulla consistenza dell’Armir, sulle perdite durante la ritirata, sui prigionieri iniziali e su quanti siano poi arrivati ai campi divenne terreno per una rovente campagna propagandistica, che contribuì non poco alla sconfitta delle sinistre.
Dall’altra parte del bivio dopo Nikolaevka ci sono invece i superstiti rimpatriati. Li vediamo tornare nel febbraio del 1943 con 17 tradotte (mentre ne erano servite 200 per il viaggio di andata), accolti da un Paese che sta vivendo l’esperienza disastrosa di una guerra avviata ormai alla sconfitta, che non vuole credere alle storie orrende di quei reduci quasi irriconoscibili, e con un governo che teme l’effetto dirompente dei racconti di uomini che hanno visto evaporare prima la fede nel Duce, poi la fiducia nei comandi. Il ritorno di costoro si colloca fra il tramonto del fascismo e l’alba della Resistenza e sicuramente con la loro disillusione contribuiscono non poco ad aumentare il discredito verso il regime prima e poi, dopo l’8 settembre, a creare quel clima di ostilità verso l’occupazione nazista che fece da base alla lotta antifascista. L’immagine diffusissima — anche se mai confermata storicamente — dei tedeschi che, durante la ritirata, dai camion tagliano le mani agli italiani appiedati che si aggrappano per salire fece probabilmente più danni ai nazisti nel nostro Paese di una sconfitta militare.
I naufraghi del Don è un libro che troverà il favore di quanti pensano che un saggio non debba essere necessariamente noioso e pedante. Il suo primo merito, a mio avviso, è la struttura che intreccia le storie individuali, forzatamente limitate, ma piene di vita e di emozione, al quadro più generale, alternando una visione a volo d’uccello, capace di riassumere gli accadimenti, a un’altezza d’uomo che ne percepisce i dettagli. Il risultato è un libro godibile, che permette al lettore di «vivere» il dramma russo. Eventualmente saranno delusi gli iperspecialisti che non troveranno citati tutti i combattimenti, descritte tutte le armi, elencati tutti i comandanti. Il secondo merito è presentare l’esperienza di chi ha vissuto il dramma della campagna a tutto tondo, lasciando ampio spazio alla prigionia e al destino dei rimpatriati.
Ultima annotazione: in fondo al libro, quasi nascoste, ci sono tre paginette dal titolo «Traccia fantasma» che ritraggono uno dei testimoni di cui si sono lette le vicende, ormai anziano, mentre si muove tra comitati di reduci, celebrazioni commemorative e problemi di salute. La piccola aggiunta ci ricorda che le testimonianze non sono solo materiale storico, ma hanno alle spalle persone vere, segnate dall’esperienza bellica e dalla vita, e che continuano ad esistere anche al di fuori della storiografia. Una cosa che spesso storici più paludati dimenticano.