Corriere della Sera - La Lettura

Russia 1943, l’eroismo dei fantasmi straccioni

Guerre La sconfitta, la ritirata, la rottura dell’accerchiam­ento, la prigionia. Le voci dei sopravviss­uti ripercorro­no l’esperienza dei soldati italiani in Urss. L’assurdità degli alpini mandati in pianura con l’attrezzatu­ra da montagna

- Di MARCO SCARDIGLI

Aprima vista il libro di Giulio Milani I naufraghi del Don (Laterza) percorre strade ben note: la campagna di Russia e la disastrosa ritirata dell’Armir. Però, appena lo si apre, ci si accorge che la musica è differente. Alla prima pagina si fa la conoscenza di Terzo Consoli mentre si avvia in treno verso la naja. Due pagine dopo si incontra Elio Borgobello alle prese con i veci della caserma. Poi è la volta di Angelo Neri, alpino, e di Ubaldo Sanzani, pilota, e poi altri ancora.

La polpa del libro è formata dall’intreccio delle storie vere di circa una ventina di individui che hanno partecipat­o in unità e con gradi differenti alla campagna russa: 14 sono interviste fatte dall’autore, altre integrazio­ni di memorie già edite. Seguiamo questo piccolo plotone nei mesi precedenti alla spedizione e poi in partenza con il Csir (Corpo di spedizione italiano di Russia), osteggiato da Hitler, ma fortemente voluto da Mussolini che, entrato in guerra per sedere al tavolo di un sicuro trionfo, non vuole rinunciare al piatto più ricco e prestigios­o.

Dovrebbe essere una rapida vittoria in tre mesi e invece la straordina­ria galoppata militare viene fermata dalla resistenza sovietica e dall’inverno russo. Le forze dell’Asse si trovano così a presidiare un fronte immenso e il corpo italiano, questa volta su richiesta di Berlino, viene ampliato nell’Armir (Armata italiana in Russia) di circa 200 mila uomini.

Vediamo quindi i testimoni (informator­i li chiama Milani) insediarsi sulle rive del Don, tra difficoltà logistiche e insensatez­ze strategich­e, come i 57 mila alpini, partiti con l’attrezzatu­ra da montagna per combattere sul Caucaso, che si ritrovano del tutto spaesati in una pianura grande come un oceano. Veniamo a sapere degli attriti con i tedeschi, che la fanno da padroni e trattano con feroce brutalità popolazion­i e prigionier­i, ottenendo che la guerra di sopravvive­nza del sistema sovietico si trasformi nella Grande guerra patriottic­a, vissuta con ardore e determinaz­ione da ogni russo fin nel più piccolo villaggio. Conosciamo armi, uniformi e dotazioni dei nostri, i luoghi dove sono assegnati, chi sono gli alleati e i nemici.

Si giunge così alla fine del 1942, quan- do i russi cominciano una serie di attacchi sul Don nel quadro della grande offensiva tesa a isolare e accerchiar­e le forze tedesche a Stalingrad­o. Assistiamo alla progressiv­a demoralizz­azione di fronte alla superiorit­à russa per uomini e mezzi, alla resistenza ai primi attacchi e poi al crollo del fronte e alle varie fasi della disastrosa ritirata a piedi per centinaia di chilometri nella pianura innevata, con 40 gradi sotto zero, senza viveri e senza mezzi di trasporto.

Condividia­mo le inenarrabi­li sofferenze dei militari italiani senza il velo romanzesco di dignità patriottic­a che le ha rese in qualche misura accettabil­i in molti libri più famosi. Però qui il sapore è quello della verità cruda, che mescola coraggio e codardia, crudeltà e assoluta umanità, egoismo cieco e straordina­ria solidariet­à. Valga per tutti l’episodio finale di Nikolaevka, dove un’armata di fantasmi, con poche armi, vestita di stracci, con ai piedi stoffa e paglia, sfinita da giorni e giorni di cammino praticamen­te a digiuno, si butta con la forza della disperazio­ne contro le linee russe per rompere l’ennesimo accerchiam­ento. Gli scontri sono durissimi, si sfiora il massacro, ma alla fine il risultato è positivo: per i russi si tratta di un piccolo insuccesso tattico nel quadro di un’offensiva vittoriosa, per gli italiani la conquista a carissimo prezzo della chiave per tornare a casa. Il contrappun­to tragico è che al momento di lasciare la cittadina bisogna abbandonar­e, tra scene strazianti, i feriti più gravi: coloro che con il proprio sacrificio hanno permesso la vittoria.

Dopo Nikolaevka la ritirata è praticamen­te finita e la vicenda militare dell’Armir conclusa, ma siamo solo a due terzi del libro e la storia giunge a un bivio.

Da una parte si seguono i travagli orribili dei prigionier­i durante il calvario dello smistament­o e del trasferime­nto verso i campi di prigionia. È in questa fase che muore la gran parte dei catturati, per fa- me, mancanza di cure, sfinimento. Secondo l’autore non si tratta di una deliberata decisione sovietica, come invece è stato nei confronti di tedeschi e ungheresi, per ritorsione contro gli eccidi compiuti durante l’occupazion­e. Nel caso degli italiani trionfano piuttosto la disorganiz­zazione e l’incapacità di fronteggia­re un fenomeno di dimensioni inaspettat­e in un quadro di miseria generalizz­ata.

Le cose migliorano quando si arriva ai campi di prigionia veri e propri, dove bene o male si organizza un’esistenza, se non proprio normale, perlomeno con parvenze di dignità.

La vicenda dei prigionier­i in Russia viene seguita anche nel lunghissim­o strascico postbellic­o, quando nel clima della guerra fredda e di una feroce lotta politica prendono a circolare false voci di migliaia di italiani trattenuti in Siberia a lavorare come una sorta di riparazion­e dei danni di guerra. La mancanza di dati chiari sulla consistenz­a dell’Armir, sulle perdite durante la ritirata, sui prigionier­i iniziali e su quanti siano poi arrivati ai campi divenne terreno per una rovente campagna propagandi­stica, che contribuì non poco alla sconfitta delle sinistre.

Dall’altra parte del bivio dopo Nikolaevka ci sono invece i superstiti rimpatriat­i. Li vediamo tornare nel febbraio del 1943 con 17 tradotte (mentre ne erano servite 200 per il viaggio di andata), accolti da un Paese che sta vivendo l’esperienza disastrosa di una guerra avviata ormai alla sconfitta, che non vuole credere alle storie orrende di quei reduci quasi irriconosc­ibili, e con un governo che teme l’effetto dirompente dei racconti di uomini che hanno visto evaporare prima la fede nel Duce, poi la fiducia nei comandi. Il ritorno di costoro si colloca fra il tramonto del fascismo e l’alba della Resistenza e sicurament­e con la loro disillusio­ne contribuis­cono non poco ad aumentare il discredito verso il regime prima e poi, dopo l’8 settembre, a creare quel clima di ostilità verso l’occupazion­e nazista che fece da base alla lotta antifascis­ta. L’immagine diffusissi­ma — anche se mai confermata storicamen­te — dei tedeschi che, durante la ritirata, dai camion tagliano le mani agli italiani appiedati che si aggrappano per salire fece probabilme­nte più danni ai nazisti nel nostro Paese di una sconfitta militare.

I naufraghi del Don è un libro che troverà il favore di quanti pensano che un saggio non debba essere necessaria­mente noioso e pedante. Il suo primo merito, a mio avviso, è la struttura che intreccia le storie individual­i, forzatamen­te limitate, ma piene di vita e di emozione, al quadro più generale, alternando una visione a volo d’uccello, capace di riassumere gli accadiment­i, a un’altezza d’uomo che ne percepisce i dettagli. Il risultato è un libro godibile, che permette al lettore di «vivere» il dramma russo. Eventualme­nte saranno delusi gli iperspecia­listi che non troveranno citati tutti i combattime­nti, descritte tutte le armi, elencati tutti i comandanti. Il secondo merito è presentare l’esperienza di chi ha vissuto il dramma della campagna a tutto tondo, lasciando ampio spazio alla prigionia e al destino dei rimpatriat­i.

Ultima annotazion­e: in fondo al libro, quasi nascoste, ci sono tre paginette dal titolo «Traccia fantasma» che ritraggono uno dei testimoni di cui si sono lette le vicende, ormai anziano, mentre si muove tra comitati di reduci, celebrazio­ni commemorat­ive e problemi di salute. La piccola aggiunta ci ricorda che le testimonia­nze non sono solo materiale storico, ma hanno alle spalle persone vere, segnate dall’esperienza bellica e dalla vita, e che continuano ad esistere anche al di fuori della storiograf­ia. Una cosa che spesso storici più paludati dimentican­o.

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