Corriere della Sera - La Lettura
Un poeta fanciullino per un lettore fanciullino
Pochi argomenti toccano la poesia quanto il suo rapporto con l’infanzia. Basti pensare ad alcune prodigiose intuizioni dantesche («il “pappo” e ’l “dindi”», ad esempio), alla poesia e alla riflessione di Leopardi, quindi a Pascoli, il cui trattatello Il fanciullino rappresenta il testo di poetica più influente almeno degli ultimi centocinquant’anni. Ma poi ancora a Saba, Caproni, Giudici, Zanzotto. In realtà, non c’è poeta che si rispetti che non abbia riconosciuto la profondità e, di più, la natura inevitabile di questo rapporto, tant’è che per molti è proprio la voce del bambino che è in noi a costituire, in un modo o nell’altro, la condizione, l’origine stessa della poesia. Al riguardo, ricordo solo quanto ha detto Montale, che come sempre mostra di avere messo a fuoco meglio di altri la complessità del problema: «Che in ogni poesia esista un fanciullino è certo; ma accanto al fanciullo dev’esserci l’uomo (...). Quando la simbiosi o la fusione avviene tra un bimbo molto piccolo e un uomo molto grande siamo di fronte al miracolo dei poeti supremi: Dante, Shakespeare, o se volete Keats, Puškin».
Un simile ambito di questioni si trova ora al centro di un bel volume antologico uscito per le edizioni italic pequod: Poeti in classe. 25 poesie per l’infanzia e non solo, a cura di Evelina De Signoribus e Elena Frontaloni, che a loro volta si rifanno a un’altra importante antologia, Pin Pidìn. Poeti d’oggi per bambini, uscita nel 1978 per la cura di Antonio Porta e Giovanni Raboni. Dirò subito che se l’intenzione era quella di approntare un libro di poesie adatte per un pubblico di piccoli lettori (su per giù della scuola elementare), l’operazione è senz’altro riuscita. Riguardo al contatto di un bambino con la poesia, del resto, non si poteva sperare in alcuna efficacia didattica se non in presenza — mi si perdoni la tautologia — della poesia stessa, il che poi significa di poesie valide, con tutto quello che questo comporta: ritmo, musica, immagini, percezioni, emozioni, idee. È vero però che questa antologia, proprio come indicato dal sottotitolo, si può leggere a più livelli — creativo, pedagogico, estetico, linguistico —, che in fin dei conti si sorreggono tutti a vicenda, assicurando al volume la necessità e l’organicità che gli vanno riconosciute.
Ma vediamo intanto com’è stato costruito, tanto più che qui la struttura risulta una parte decisiva della proposta poetica. Nella sua introduzione (che riporta anche una lettera di Giudici e alcune pagine in cui Silvana Caproni, la figlia del poeta, ricorda il padre nella sua attività di maestro), la De Signoribus spiega come il progetto Poeti in classe affondi le sue radici in una rivista online per insegnanti della scuola primaria edita da Giunti. Nel caso presente a ciascun poeta è stato affidato un capitoletto diviso in tre parti: una auto-presentazione, una breve descrizione del testo offerto, infine la poesia. A corredo del tutto compaiono qui e là anche delle pagine bianche, con questa semplice intestazione: pagina bianca per disegni e appunti. Il volume è pensato bene, insomma; e anche se parecchie di queste poesie appaiono senz’altro riuscite e appropriate, non è comunque detto che la corrente poetica non scorra talo- ra altrettanto forte nei testi d’accompagnamento. Cosa è accaduto, infatti?
Questo anzitutto colpisce: che ogni poeta, chiamato a presentarsi a un pubblico di bambini e a giustificare la propria vocazione e poesia, lo abbia fatto con estremo pudore, con grazia, anzi. E a ben vedere questo riserbo, questa discrezione, perfino questo dolce imbarazzo, non riguardano il fatto di avere scritto una poesia cosiddetta per bambini, quanto qualcosa di più profondo e di più radicale. In realtà, ciascuno dei 25 poeti si è trovato davanti al bambino che era, al bambino che si è perduto ma che pure in qualche modo c’è ancora, perché continua a dettare dentro. Ecco, è come se si fossero trovati nudi e arresi davanti a una parte di sé che la sa più lunga, che è più viva e più diretta, più poetica, e con cui pertanto non si può mentire. Nelle sue ragioni più vere il dialogo col bimbo non riguarda la biografia personale, le vicissitudini esistenziali, il passato, i ricordi, quanto la fedeltà e il rispetto verso la parte feconda, immaginativa e, allora sì, poetica, che abita in noi. Ed è proprio qui, in questo dialogo allo specchio, che l’aspetto creativo e quello didattico fanno una cosa sola. Del resto tutti questi poeti hanno scritto la loro poesia «per l’infanzia» nel loro modo consueto, senza rinunciare insomma al proprio approccio, al proprio stile. Volta a volta riconoscibili sono infatti il linguaggio, le forme di attenzione, i procedimenti associativi, l’immaginario. Quel po’ di adattamento all’occasione particolare, ammesso che ci sia stato, riguarda i tratti più circostanziali e più esteriori della poesia. È un fatto d’inclinazione, non di sostanza. Il gesto, il richiamo delle facoltà creative, l’attivazione delle prerogative del discorso poetico, non sono affatto in minore o in levare, ma rimangono a tutti gli effetti invariati.
Non è un caso, allora, che si ritrovino quasi dappertutto alcuni temi o elementi centrali della riflessione poetica: la poesia come divertimento, come libertà e come gioco, e dunque come uno strano, impossibile patto tra invenzione e regola, gratuità e responsabilità, immaginazione e senso di realtà, gioia e spavento. Soprattutto, sembra di capire che senza questo originario piacere della lingua, senza il tintinnio dei suoni e delle rime, senza l’euforia del combinare e dello scombinare, del distinguere e dell’accoppiare le parole, una vera poesia davvero non possa esserci. Il gusto nascente della lingua che si forma e dice, i giochi tra senso e non senso, la filastrocca, il calembour, il rovesciamento: il bambino sembra il destinatario ideale della poesia; della poesia, voglio dire, prima che con la poesia arrivi anche tutto il resto. La cosa più significativa non è tanto che venga detto qualcosa di nuovo (e chi ne è capace, poi?), quanto che si ritorni sempre lì, a quella funzione antropologica della poesia che precede e giustifica tutte le altre.
Ecco allora, solo per ricordare alcuni passaggi: «Chi scrive poesie spesso ha l’impressione di farlo come sotto dettatura», «fare il poeta non è un mestiere», «dire la cosa giusta, quando è il momento di dirla», «l’immaginazione è il più potente degli amuleti», «i poeti fanno esistere cose nelle loro poesie che nessuno può costruire e nemmeno vedere», «si accende come una piccola luce dentro un mondo grigio», «forse quella poesia era una formula magica», «si scrive poesia dentro un’esatta e meravigliosa disattenzione», e tant’altro. C’è da crederci? Direi proprio di sì. Io, almeno, ci credo.