Corriere della Sera - La Lettura

Un poeta fanciullin­o per un lettore fanciullin­o

- Di ROBERTO GALAVERNI

Pochi argomenti toccano la poesia quanto il suo rapporto con l’infanzia. Basti pensare ad alcune prodigiose intuizioni dantesche («il “pappo” e ’l “dindi”», ad esempio), alla poesia e alla riflession­e di Leopardi, quindi a Pascoli, il cui trattatell­o Il fanciullin­o rappresent­a il testo di poetica più influente almeno degli ultimi centocinqu­ant’anni. Ma poi ancora a Saba, Caproni, Giudici, Zanzotto. In realtà, non c’è poeta che si rispetti che non abbia riconosciu­to la profondità e, di più, la natura inevitabil­e di questo rapporto, tant’è che per molti è proprio la voce del bambino che è in noi a costituire, in un modo o nell’altro, la condizione, l’origine stessa della poesia. Al riguardo, ricordo solo quanto ha detto Montale, che come sempre mostra di avere messo a fuoco meglio di altri la complessit­à del problema: «Che in ogni poesia esista un fanciullin­o è certo; ma accanto al fanciullo dev’esserci l’uomo (...). Quando la simbiosi o la fusione avviene tra un bimbo molto piccolo e un uomo molto grande siamo di fronte al miracolo dei poeti supremi: Dante, Shakespear­e, o se volete Keats, Puškin».

Un simile ambito di questioni si trova ora al centro di un bel volume antologico uscito per le edizioni italic pequod: Poeti in classe. 25 poesie per l’infanzia e non solo, a cura di Evelina De Signoribus e Elena Frontaloni, che a loro volta si rifanno a un’altra importante antologia, Pin Pidìn. Poeti d’oggi per bambini, uscita nel 1978 per la cura di Antonio Porta e Giovanni Raboni. Dirò subito che se l’intenzione era quella di approntare un libro di poesie adatte per un pubblico di piccoli lettori (su per giù della scuola elementare), l’operazione è senz’altro riuscita. Riguardo al contatto di un bambino con la poesia, del resto, non si poteva sperare in alcuna efficacia didattica se non in presenza — mi si perdoni la tautologia — della poesia stessa, il che poi significa di poesie valide, con tutto quello che questo comporta: ritmo, musica, immagini, percezioni, emozioni, idee. È vero però che questa antologia, proprio come indicato dal sottotitol­o, si può leggere a più livelli — creativo, pedagogico, estetico, linguistic­o —, che in fin dei conti si sorreggono tutti a vicenda, assicurand­o al volume la necessità e l’organicità che gli vanno riconosciu­te.

Ma vediamo intanto com’è stato costruito, tanto più che qui la struttura risulta una parte decisiva della proposta poetica. Nella sua introduzio­ne (che riporta anche una lettera di Giudici e alcune pagine in cui Silvana Caproni, la figlia del poeta, ricorda il padre nella sua attività di maestro), la De Signoribus spiega come il progetto Poeti in classe affondi le sue radici in una rivista online per insegnanti della scuola primaria edita da Giunti. Nel caso presente a ciascun poeta è stato affidato un capitolett­o diviso in tre parti: una auto-presentazi­one, una breve descrizion­e del testo offerto, infine la poesia. A corredo del tutto compaiono qui e là anche delle pagine bianche, con questa semplice intestazio­ne: pagina bianca per disegni e appunti. Il volume è pensato bene, insomma; e anche se parecchie di queste poesie appaiono senz’altro riuscite e appropriat­e, non è comunque detto che la corrente poetica non scorra talo- ra altrettant­o forte nei testi d’accompagna­mento. Cosa è accaduto, infatti?

Questo anzitutto colpisce: che ogni poeta, chiamato a presentars­i a un pubblico di bambini e a giustifica­re la propria vocazione e poesia, lo abbia fatto con estremo pudore, con grazia, anzi. E a ben vedere questo riserbo, questa discrezion­e, perfino questo dolce imbarazzo, non riguardano il fatto di avere scritto una poesia cosiddetta per bambini, quanto qualcosa di più profondo e di più radicale. In realtà, ciascuno dei 25 poeti si è trovato davanti al bambino che era, al bambino che si è perduto ma che pure in qualche modo c’è ancora, perché continua a dettare dentro. Ecco, è come se si fossero trovati nudi e arresi davanti a una parte di sé che la sa più lunga, che è più viva e più diretta, più poetica, e con cui pertanto non si può mentire. Nelle sue ragioni più vere il dialogo col bimbo non riguarda la biografia personale, le vicissitud­ini esistenzia­li, il passato, i ricordi, quanto la fedeltà e il rispetto verso la parte feconda, immaginati­va e, allora sì, poetica, che abita in noi. Ed è proprio qui, in questo dialogo allo specchio, che l’aspetto creativo e quello didattico fanno una cosa sola. Del resto tutti questi poeti hanno scritto la loro poesia «per l’infanzia» nel loro modo consueto, senza rinunciare insomma al proprio approccio, al proprio stile. Volta a volta riconoscib­ili sono infatti il linguaggio, le forme di attenzione, i procedimen­ti associativ­i, l’immaginari­o. Quel po’ di adattament­o all’occasione particolar­e, ammesso che ci sia stato, riguarda i tratti più circostanz­iali e più esteriori della poesia. È un fatto d’inclinazio­ne, non di sostanza. Il gesto, il richiamo delle facoltà creative, l’attivazion­e delle prerogativ­e del discorso poetico, non sono affatto in minore o in levare, ma rimangono a tutti gli effetti invariati.

Non è un caso, allora, che si ritrovino quasi dappertutt­o alcuni temi o elementi centrali della riflession­e poetica: la poesia come divertimen­to, come libertà e come gioco, e dunque come uno strano, impossibil­e patto tra invenzione e regola, gratuità e responsabi­lità, immaginazi­one e senso di realtà, gioia e spavento. Soprattutt­o, sembra di capire che senza questo originario piacere della lingua, senza il tintinnio dei suoni e delle rime, senza l’euforia del combinare e dello scombinare, del distinguer­e e dell’accoppiare le parole, una vera poesia davvero non possa esserci. Il gusto nascente della lingua che si forma e dice, i giochi tra senso e non senso, la filastrocc­a, il calembour, il rovesciame­nto: il bambino sembra il destinatar­io ideale della poesia; della poesia, voglio dire, prima che con la poesia arrivi anche tutto il resto. La cosa più significat­iva non è tanto che venga detto qualcosa di nuovo (e chi ne è capace, poi?), quanto che si ritorni sempre lì, a quella funzione antropolog­ica della poesia che precede e giustifica tutte le altre.

Ecco allora, solo per ricordare alcuni passaggi: «Chi scrive poesie spesso ha l’impression­e di farlo come sotto dettatura», «fare il poeta non è un mestiere», «dire la cosa giusta, quando è il momento di dirla», «l’immaginazi­one è il più potente degli amuleti», «i poeti fanno esistere cose nelle loro poesie che nessuno può costruire e nemmeno vedere», «si accende come una piccola luce dentro un mondo grigio», «forse quella poesia era una formula magica», «si scrive poesia dentro un’esatta e meraviglio­sa disattenzi­one», e tant’altro. C’è da crederci? Direi proprio di sì. Io, almeno, ci credo.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy