Corriere della Sera - La Lettura
La fine dei Manifesti Gli artisti non sono più intellettuali
Londra, Serpentine Gall er y , 2008. Hans-Ulrich Obrist promuove la Maratona dei Manifesti. Una performance collettiva cui partecipano artisti, scrittori e filosofi, che sono chiamati a compiere un gesto audace e, insieme, inattuale: redigere un manifesto. Un omaggio a una pratica tipicamente novecentesca. Ne risulta un archivio di dichiarazioni che hanno poco in comune con i «proclami» dei futuristi e dei dadaisti, dei surrealisti e dei neoplasticisti, dei situazionisti e degli animatori di Fluxus.
Concepiti sulle orme dei «fogli» della rivoluzione francese e del Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels, imperativi, immediati, dotati di efficacia pubblicitaria, propagandistici, spesso iconoclasti, talvolta utopistici, costellati di enunciati estremi, antesignani dei blog, i manifesti delle avanguardie indicano le coordinate poetiche e operative di determinate comunità. Sono come «vettori comunicativi» che offrono sintesi dei valori ideologici, etici ed estetici ai quali un gruppo si richiama. Si tratta di esercizi i cui autori parlano sempre al plurale, in nome di un «partito», per conquistare nuovi adepti, demonizzando l’hic et nunc e provando ad anticipare l’avvenire.
Alla Serpentine, invece, molti invitati lessero in pubblico testi segnati esclusivamente da affermazioni individuali. Tra i protagonisti, Eric Hobsbawm, che disse: «Non so bene a che cosa servano i manifesti puramente individuali, se non per esprimere le paure per il presente e le speranze per il futuro di una singola persona, che può, attraverso di essi, auspicare o meno che vengano condivise da altri». La maratona della Serpentine ha avuto il merito di svelare un passaggio epocale decisivo. Per circa un secolo, molti artisti hanno affiancato al loro lavoro una costante attività teorica e letteraria. Oggi non è più così. Perché?
Inizi del XX secolo. Soffia un benefico vento di speranze e di follie. Siamo nell’esaltante stagione delle avanguardie. Alcune voci ne scandiscono i progetti visionari: Kandinskij e Klee, de Chirico e Matisse, Picasso e Duchamp, Boccioni e Balla, Chagall e Severini, Ernst e Dalí, Magritte e Man Ray, Mondrian e Itten, Malevic e Moholy-Nagy, Depero e Arp. Da questi «modelli» partiranno, nel secondo Novecento, tra gli altri, Warhol, Johns, Reinhard, LeWitt, Stella, Tápies, Guttuso, Mauri, Tadini.
Cosa hanno in comune questi artisti? A uno sguardo superficiale, poco. Appartengono a generazioni diverse. Spesso, sono in conflitto tra di loro. Credono in principi lontani. Eppure, condividono l’esigenza di dedicare tempo ed energie all’elaborazione di originali scritture critiche. Meditazioni asistematiche, rapsodiche ed erratiche, che vengono affidate non solo a libri, a saggi, ad articoli o, appunto, a manifesti, ma anche a lettere, annotazioni, confessioni private. Testi paralleli, che non offrono la chiave per cogliere il significato au-
tentico delle loro opere, ma suggeriscono sentieri per lambirne gli enigmi. Guide capricciose ed elusive. Che, sovente, si spingono verso le vette dell’investigazione teorica. Si pensi ai contributi di Kandinskij, Klee, Boccioni, Mondrian, Itten, Malevic, Duchamp, Ernst, Magritte, Moholy-Nagy, i quali, con forti inclinazioni mistico-spiritualistiche, riprendono precise matrici filosofiche e scientifiche. Per dare un fondamento dottrinario alto e solido alle loro dissennate scorribande immaginarie. Altri «avanguardisti» preferiscono rilanciare, in un’ottica moderna, la grande lezione della trattatistica medioevale (Cennino Cennini). In questa direzione si collocano de Chirico, Dalí e Severini, i quali — inquieti materialisti — si sottraggono alle teorizzazioni e polemizzano con quei critici che si soffermano solo sulla «periferia» delle costruzioni pittoriche e plastiche, abbandonandosi a un impressionismo soggettivistico. Nei loro scritti, tendono a parlare da homini faber, che conoscono dall’interno i meccanismi della creazione. Non si smarriscono in discussioni astratte sui fini dell’arte. Vogliono introdurci nelle loro officine. Fedeli a discorsi di tipo pragmatico, indicano le procedure seguite; descrivono gli strumenti adoperati; rivelano i segreti del «fare»; esprimono il proprio essere del mestiere; si interrogano sull’«immanenza» della forma, del disegno, del colore, del chiaroscuro, dei volumi, delle pennellate, degli impasti.
Insomma, si comportano da artisti-critici che, per richiamarci a un giudizio felice di Giovanni Papini in un articolo del 1912, «conoscono meglio l’arte perché la fanno e sono, poeti loro stessi, più inventivi e generosi».
Altri artisti, infine, nelle loro scritture, sottolineano soprattutto la dimensione civile e politica sottesa alla propria ricerca. Assumono — esemplare il caso di Picasso — i modi degli intellettuali «integrati», impegnati a ridefinire il ruolo e la funzione delle arti nella società e a misurarsi con alcune emergenze e contraddizioni della loro epoca.
E adesso? Si rifletta su quella che è diventata una consuetudine. Alcuni tra i maggiori protagonisti dell’arte di oggi non pubblicano manifesti, né saggi, né articoli. Rare le eccezioni: tra gli altri, Pistoletto e Kounellis, Nitsch e Hockney, Kosuth e Parmiggiani, Fabro e Wall, Kirkeby e Paolini, Ai Weiwei e Fabre, Kiefer e Kentridge, Demand e Isgrò, Jori e Serafini. Molto ampia, invece, la famiglia degli artisti silenti. Gordon e Parreno, Marclay e McQueen, Schnabel e Dumas, Rist e Huyghe, Aitken e Shiota, Barceló e Paladino, Saraceno e Hatoum, Salcedo e Christo, Fisher e Orlan, Muniz e Beecroft, Richter e Emin, Anderson e Goldin, Lucas e Durham, Sherman e Serrano, Murakami e i fratelli Chapman, Stingel e Cattelan, Barney e McCharty, Abramovic e GonzálezTorres, Koons e Vezzoli, Boltanski e Banksy, Abdessemed e Hirschhorn, Guo-Qiang e Chen Zhen, Hammons e Orozco, Ataman e Neshat, e Ruscha, Trockel e Höller, Eliasson e Hirst.
Si tratta di personalità differenti che, nel ricorrere a una sorta di strategia del disimpegno, tendono a non innalzare impalcature teoriche sofisticate. Eliminano ogni sovrastruttura teoretica o intellettualistica. Sovente consegnano le loro confessioni solo ad ampie interviste (come quelle raccolte da Obrist). Non si fanno sostenitori di ambiziose intenzioni poetiche. Infine, rinunciano a esprimere punti di vista specifici sul presente. Forse perché non sorretti da approfondite conoscenze tecniche, indifferenti al piano del saper-fare, molti artisti della postmodernità evitano di pronunciare per verba il senso e la funzione dei media che utilizzano. È come se non avessero più niente da dire su se stessi, sul proprio lavoro e sulla realtà che abitano. Sembrano rivolgersi solo a chi già conosce il contenuto delle loro opere. Si fanno interpreti così di un’idea elitaria dell’arte, intesa come acrobazia dell’intelligenza, che individua nell’allontanamento dalla sensibilità comune una certificazione del proprio valore.
Nella maggior parte dei casi, questi artisti preferiscono rimanere dentro le parentesi protettive dell’artworld (come ha raccontato Sarah Thornton in 33 artisti in 3 atti): frequentare galleristi, mercanti, ma anche curatori, direttori di musei; entrare nelle squadre di potenti magnati; presenziare alle inaugurazioni di grandi mostre e mega-eventi internazionali; recarsi alle feste frequentate dal jet set dell’arte.
Questo scenario è specchio di un progressivo declino? Di un oramai sempre più diffuso impoverimento? La questione andrebbe letta in maniera diversa. La scelta afasica della maggior parte degli artisti di oggi va decifrata alla luce di paradigmi culturali e comportamentali radicalmente mutati rispetto a quelli del passato. Personaggi come Koons, Hirst e Murakami avvertono innanzitutto la necessità di chiudere con la tradizione letterario-filosofica propria delle avanguardie novecentesche. Essere contemporanei, per loro, significa non teorizzare, né disegnare complessi palinsesti concettuali, ma essere agili. Disinvolti surfisti, essi pongono in rapporto ambiti linguistici differenti e lontani, transitando con facilità da un «quadrante» a un altro. Si propongono come mediatori: operano, cioè, come i media, mettendo in contatto elementi diversi e costruendo reti di relazioni e di opportunità, in un fecondo e aperto dialogo con il tempo in cui si trovano a vivere.
L’arte, per loro, è un’esperienza totalizzante e ubiqua. Che si compone di tanti gesti collegati tra di loro. Chiede di essere continuamente reinventata, rimodulata e declinata su diversi territori. Ma, per essere compresa, non ha bisogno di accompagnamenti testuali. È autonoma. Basta a se stessa. Parla da sé. In filigrana, dietro la scelta del silenzio, si potrebbe cogliere l’eco di un provocatorio invito di Matisse: «Statemi a sentire, volete fare pittura? Allora cominciate col farvi tagliare la lingua, perché d’ora in poi dovete esprimervi unicamente con i pennelli».