Corriere della Sera - La Lettura
Un testo teorico serve a difendere la mia opera da equivoci o attacchi diretti
Come artisti, noi tutti cominciamo a costruire con quello che abbiamo sotto mano. Prendiamo, rubiamo, ci appropriamo di frammenti di significato dai detriti della cultura per costruire altri significati, i nostri. Allo stesso modo, tutti gli scrittori scrivono utilizzando parole inventate da altri. Usiamo parole che hanno significati stabiliti, per costruire brani che hanno un significato proprio. In quanto artisti, noi rubiamo non solo parole e immagini, ma pressoché tutto. Verso la metà degli anni Sessanta apparve chiaro che la forma d’arte istituzionalizzata esistente, paradigma della pittura e della scultura, non era più in grado di alimentare la possibilità di creare «un discorso tutto nostro». Personalmente ho capito, e sono certo che la mia opera lo dimostra, che riducendo qualsiasi ingrediente di significato culturale pregresso a elemento strutturale più piccolo (come dire, facendogli assumere la funzione di «parola»), ero in grado a quel punto di costruire altri significati su un altro livello, e di creare «un discorso mio». Se un’opera di questo genere viene giudicata come arte, ciò significa che è riuscita ad apportare cambiamenti. È stato questo un aspetto fondamentale della mia scrittura, che ha necessitato, per oltre cinquant’anni, di una qualche forma di furto, oggi chiamata appropriazione, e che traspare in tutta la mia opera, fondata principalmente sul testo e legata a un contesto. I testi sulle opere d’arte sono percepiti diversamente rispetto ai testi che sono opere d’arte. Se scrivo un testo teorico, ciò scaturisce ogni volta dalla necessità di esaminare un problema nella mia opera che in qualche modo stavo cercando di scansare, oppure per difendere la mia opera — o un modo di scrivere — contro equivoci o attacchi diretti.
(traduzione di