Corriere della Sera - La Lettura
Il massacro degli innocenti
Storia L’episodio atroce riferito nel Vangelo di Matteo è stato raffigurato dai più grandi artisti anche per raccontare le tragedie del loro tempo. Una rassegna al Domaine de Chantilly da settembre riprende l’argomento a partire dal capolavoro di Nicolas
La strage (o il massacro) degli innocenti è sempre stata un momento forte e centrale della narrazione della vita di Gesù, anche se raccontata solamente nel Vangelo di Matteo e se non esiste alcun serio indizio della storicità dell’avvenimento. Il mito del bambino «divino» perseguitato fin dalla nascita, che rischia la vita di fronte ai suoi persecutori non era, del resto, una novità nelle narrazioni mitologico-religiose dell’antichità. È stata la pittura, in realtà, a partire dal Medioevo, a consacrare questo racconto come un topos ineliminabile e ricorrente nella tradizione cattolica e nell’immaginario collettivo. A partire dal racconto che ne fa Giotto nella Cappella degli Scrovegni nel 1304 e subito dopo Duccio di Buoninsegna (nel museo dell’Opera del Duomo di Siena). Gli affreschi delle chiese e delle cappelle costituivano, allora, il racconto pubblico per antonomasia delle vicende religiose che si voleva rimanessero scolpite nella memoria dei fedeli. Nei secoli successivi la vicenda dei bambini uccisi da Erode, nella speranza di colpire il «Dio» appena nato di cui avevano parlato i Re Magi andando a Betlemme, continuò a incoraggiare i più grandi pittori, da Guido Reni a Ghirlandaio, da Rubens a Tintoretto. Per alcuni di loro dipingere la strage dei bambini significò raccontare alcuni massacri appena compiuti: per Bruegel quelli commessi nei villaggi fiamminghi dalle truppe del duca d’Alba, per Matteo di Giovanni quello attuato dai turchi a Otranto nel 1480.
Una svolta, nella raffigurazione della strage degli innocenti, la inaugurò Nicolas Poussin attorno al 1625, focalizzando in un particolare (un soldato che uccide un bimbo mentre la madre gli abbraccia le gambe per farlo desistere, una donna dietro che si dispera e altre due sullo sfondo che tengono in braccio i loro figli uccisi) l’intera narrazione, ponendo nella ferocia, nel terrore e nella disperazione dei tre protagonisti la sintesi della violenza gratuita e immotivata, manifestazione solo di prepotenza e arbitrio del più forte. Attorno al quadro di Poussin verrà inaugurata a Chantilly il prossimo 11 settembre la mostra Le massacre des Innocents. Poussin, Picasso, Bacon, che rimarrà allo splendido Domaine de Chantilly fino al 7 gennaio 2018.
Non si tratta, come si può capire anche dalla data di inaugurazione, di un semplice omaggio all’innovazione artistica di Poussin e all’eredità di un quadro che troverà anche nel Novecento artisti che vi si ispireranno, a loro volta rivoluzionando e trasformando il modo di guardare alle stragi contemporanee. Oggi a raccontarci i massacri di innocenti — le stragi di civili che hanno accompagnato in misura crescente i conflitti nel corso del XX e XXI secolo — sono soprattutto le fotografie, molte delle quali, proprio su questo soggetto, hanno vinto premi importanti e sono diventate icone della nostra immagine della violenza e dei conflitti sempre più insensati cui ci tocca assistere. Le foto della serie Mothers of Patience di Fatemeh Behboudi hanno vinto nel 2015 la menzione onorevole del World Press Photo, la foto di Paul Hansen il World Press Photo del 2013, quasi ogni anno foto di mamme e bambini vittime di conflitti sono state premiate, nel 1998 fu la volta della Madonna di Bentalha di Hocine Zaourar, madre dolente di un massacro di innocenti in Algeria. Tali foto, come il dipinto di Poussin, s’incentrano nella maggior parte dei casi su momenti singoli, simbolo e riassunto di una tragedia più collettiva. Nell’epoca della comunicazione di massa, del resto, la tragedia di un individuo riesce spesso a commuovere di più della notizia di un massacro di massa anonimo e spersonalizzato.
Queste immagini, di cui il quadro di Poussin può essere visto come un precursore, sono diventate sempre più frequenti e significative a mano a mano che, nel corso dei conflitti, le stragi di civili hanno accresciuto la loro percentuale nei confronti delle morti militari. Un discorso comunemente accettato situa ormai al livello del 90% le uccisioni di civili, donne e bambini soprattutto, nelle «nuove guerre» che si sono imposte nel mondo a partire dall’inizio degli anni Novanta del secolo scorso. Studi più approfonditi hanno messo in discussione questo assunto, ricordando, ad esempio, che se in Iraq le vittime civili sono state quasi il 75% delle perdite complessive, in Afghanistan lo sono state solo il 25%, lasciando il triste primato di morte ancora alle vittime militari. Le statistiche del Peace Research Institute di Oslo, ad esempio, rammentano che le donne costituiscono la maggioranza tra le vittime dell’immediato postconflitto, mentre sono ancora i maschi in armi a esserlo durante la guerra; con una chiara divaricazione, anche in quest’ultimo caso, tra le vittime dirette di scontri militari e quelle indirette (bombardamenti e altri tipi di violenze) in cui a essere più colpiti sono donne e bambini.
Già nel 1977 Susan Sontag, nella splendida raccolta di saggi Sulla fotografia, ricordava come la consuetudine con l’atrocità facesse apparire sempre più normale l’orribile; ma suggeriva anche di guardare a chi fotografava l’orrore come a un professionista, costretto a nascondere la sua empatia e a superare l’umanità dello sguardo per meglio documentare la realtà. Pochi anni prima la foto di Kim Phúc, la bambina nuda urlante colpita dal napalm americano in Vietnam, era diventata simbolo e denuncia di unaguerr acriminale. Oggi le foto dei bambini di Do uma, in Siria, ripresi feriti e terrorizzati dopo un bombardamento, sono meno violente, e tuttavia ugualmente terribili, nel denunciare una strage che non trova giustificazioni, ma risulta inarrestabile.
Sono queste immagini oggi a svolgere il ruolo che ebbe Le massacre des Innocents di Poussin, dipinto nel 1634 al culmine della fase «svedese» della guerra dei Trent’anni, un conflitto che costò dieci milioni di morti e coinvolse gli abitanti dei villaggi e delle città di gran parte dell’Europa centrale.