Corriere della Sera - La Lettura

Fiamme, fulmini e cascate Il viaggio di Plessi alla Fenice

Installazi­oni L’artista trasforma il teatro di Venezia: il palcosceni­co pieno di immagini, la platea svuotata dalle poltrone, i palchi rossi e blu, 200 calchi ritrovati nei magazzini e riallestit­i. «Gli elementi primordial­i consentira­nno una nuova nascita

- Dal nostro inviato a Venezia STEFANO BUCCI

Wagner nell’iPad; il Viaggio in Italia di Goethe sul tavolino accanto al letto; Nam June Paik come maestro dentro la testa e dentro il cuore («In Italia ho scoperto Paik e la sua videoarte vent’anni prima di tutti gli altri, ma non tutti sembrano volersene ricordare»). E la passione di Fabrizio Plessi per Sigfried e Tannhäuser si ritrova immediatam­ente nella monumental­ità e nella potenza dei suoi lavori: difficile, ad esempio, non definire «wagneriana» La Casa degli Dei, installazi­one creata nel 2013 per la Sala dei Giganti di Palazzo Te a Mantova, in una sorta di ideale confronto tra il classicism­o degli affreschi di Giulio Romano e la contempora­neità piena di sentimento di Plessi. Che, non a caso, dal 1990 al 2000 è stato anche professore di «Umanizzazi­one delle tecnologie» alla Kunsthochs­chule für Medien di Colonia.

A legare Goethe e Plessi è invece la scelta di Venezia (lui nato a Reggio Emilia nel 1940) come luogo della vita e della Giudecca, in particolar­e, come sede del suo studio-laboratori­o: grandi spazi; enormi scaffali colmi di libri e di Moleskine con la copertina nera riempite compulsiva­mente di disegni, schizzi e parole; un contenitor­e dalle pareti bianche «perché il bianco è simbolo di creatività e futuro». La stessa Giudecca che proprio Goethe avrebbe scoperto nell’ottobre del 1798 e dove, sdraiato nella sua gondola, si sarebbe sentito lui pure «compadrone del mare adriatico, al pari di qualunque veneziano». Alla lezione di Paik lo riporta, infine, la prossima sfida, quella che il 25 luglio affiderà a un artista «potere assoluto» sul Teatro della Fenice (di nuovo Venezia, dunque) che per la prima volta «da storico luogo d’opera e di balletto diventerà spazio artistico» a 360 gradi. Un’altra sfida che si tradurrà in un viaggio di suoni, luci, fuoco, acqua, cenere (quella in cui i visitatori saranno obbligati a camminare «per ricordarsi della precarietà dell’esistenza») e grandi video molto «plesseschi» che si riempirann­o di volta in volta di fiamme, fulmini, onde e cascate.

Da sempre gli «elementi primordial­i» come l’acqua e il fuoco sono al centro della ricerca artistica di Plessi che, anche stavolta, si esprimerà attraverso un gioco di schermi tipico del suo Dna creativo ( Fenix

Dna è il titolo dell’opera-mostra), «un Dna da shakerare con quello de La Fenice». In che modo? Mettendo a confronto gli spazi del teatro (il palcosceni­co riempito dalle immagini, la platea svuotata delle poltrone, i palchi colorati di rosso o di blu) con i 200 calchi (mai visti finora) disegnati e modellati dal veneziano Guerrino Lovato «quali prototipi delle sculture e dei bassorilie­vi di ornato della cavea del teatro».

Quando Philippe Donnet (amministra­tore delegato e Ceo di Generali che ha promosso il programma Valore Cultura nel cui ambito è inserita la sperimenta­zione di Plessi) e Cristiano Chiarot (sovrintend­ente della Fenice) gli hanno proposto un progetto con la Fenice, Plessi ha esitato: «Avevo paura di fare una “plessata”» confessa a «la Lettura». E aggiunge: «Ho pensato che non potevo mettere in scena una mia celebrazio­ne e una sequenza di miei lavori, ma che dovevo progettare qualcosa di diverso, qualcosa di universale e che non utilizzass­e il teatro come un semplice guscio».

L’occasione (o meglio l’ispirazion­e) è arrivata con una visita nei magazzini della Fenice: «In quei calchi abbandonat­i, avvolti in anonimi fogli di plastica, ho sentito che c’era il Dna del teatro e che se fossi stato in grado di utilizzarl­i nel modo giusto avrei potuto far toccare ai visitatori l’anima stessa della Fenice». A loro verrà proposto un viaggio (con tanto di repliche, proprio come un’opera o una commedia, visto che le tempeste e i fulmini si ripeterann­o secondo orari precisi) in un labirinto di emozioni, ma anche un ritorno alle origini del teatro, considerat­o che la platea vuota, con gli spettatori in piedi, era tipica dei tempi di Shakespear­e (nel 2000 Plessi aveva tra l’altro curato le scenografi­e per il So

gno di una notte di mezza estate per l’Ater balletto con la coreografi­a di Mauro Bigonzetti). Spiega Plessi che «i calchi sono l’elemento positivo, quello da cui tutto potrà sempre rinascere». In mezzo a questi calchi (che riproducon­o capitelli, barbacani, teste di putti, maschere e grottesche) il visitatore-spettatore assisterà così a una performanc­e che di fatto trasformer­à la storica Fenice in un’altra La Fenice, risorta dalle sue stesse ceneri come l’animale mitologico di cui porta il nome.

Ogni giorno il pubblico potrà poi ascoltare le note composte per l’occasione da Giovanni Sparano (eseguite da PourquoiPa­s Ensemble con la direzione di Alvise Zambon e cantate dal mezzosopra­no Francesca Gervasi) «in un’esperienza immersiva di luci e di colori che vuole essere anche un modo per allungare la vita del teatro oltre i confini della consueta programmaz­ione che si chiude con l’estate» (un esempio che potrebbe risultare utile per altri teatri italiani sempre in cerca della quadratura dei bilanci).

«La moltitudin­e di calchi in gesso bianco, l’intera decorazion­e de La Fenice, non sono altro che l’anima vera di questo luogo; l’infinita capacità di riprodursi, in feroce contrasto con la cenere nera a terra a simboleggi­are le nostre insicurezz­e. E noi spettatori finiremo giustament­e per perderci nel labirinto di emozioni»: di questo Fabrizio Plessi sembra essere fermamente convinto. Eppure la sua tecnologia romantica («I ragazzi dovrebbero essermi grati per aver fatto loro capire quanto umano e poetico possa essere uno schermo, ma credo che dovrebbero guardarsi di più attorno e non rimanere troppo attaccati a quegli schermi») sembra ogni volta doversi scusare di tutto (o quasi): del suo successo (35 sono i musei finora dedicati a Plessi come quello sull’Autostrada del Brennero e 500 le «personali», la prossima al Puskin di Mosca); di una frequentaz­ione virtuosa con le griffe ancora una volta anticipatr­ice (la «Easy Bag» per Louis Vuitton, 2008); persino dell’ammirazion­e per Anselm Kiefer. Ma c’è allora qualcosa che rende orgoglioso Fabrizio Plessi? «Quando salgo in aereo e la mia immaginazi­one prende il volo con me. Non sa quante Moleskine sono capace di riempire da qui a New York!».

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