Corriere della Sera - La Lettura

I palinsesti di Apple e Facebook

- Di PIETRO MINTO

«Siamol’ eBay perla generazion­e di Snapchat». È il genere di frase che gli imprendito­ri chiamano pitch: una breve presentazi­one di un progetto pensata per attirare l’attenzione degli investitor­i. Ed è una frase che qualcuno ha davvero pronunciat­o nel corso di Planet of the Apps, un reality show prodotto da Apple visibile in esclusiva su Apple Music, l’applicazio­ne per lo streaming musicale della Mela. A questo punto potrebbe essere utile fermarsi per riflettere su quest’ultima frase: Apple ha prodotto uno show televisivo, cosa di per sé bizzarra, pensato per una sua app e non per la television­e. Può sembrare molto strano, eppure siamo solamente all’inizio della produzione di programmi e serie da parte di aziende tecnologic­he. Benvenuti nella television­e del mondo dei giganti tecnologic­i.

Il passo logico più breve (e meno traumatico) è stato probabilme­nte quello di YouTube. Il sito di streaming di proprietà di Google lo scorso anno ha creato YouTube Red, una sua versione a pagamento (disponibil­e per ora solo negli Stati Uniti e poche altre nazioni) in cui per 9,99 dollari al mese gli utenti possono usare il sito senza pubblicità e — soprattutt­o — accedere ai nuovissimi YouTube Red Originals. Ovvero, serie prodotte dall’azienda esclusivam­ente per i suoi utenti «Red». In seguito a una polemica su alcune pessime battute su Hitler e il nazismo, YouTube ha cancellato lo show di PewDiePie, lo youtuber con più iscritti al mondo, ma nel corso dell’anno ha aggiunto altri prodotti: da quelli di altre star della piattaform­a, come Colin Furze e Swoozie, a show comici come Do You Want to See a Dead Body? in cui l’attore Rob Huebel sarà accompagna­to da guest star in improbabil­i avventure. La ricetta di YouTube sembra essere questa: partire dagli esperiment­i con gli youtuber di successo per virare verso contenuti più ambiziosi e tradiziona­li. Contenuti televisivi, verrebbe da dire.

Il corto circuito però rimane. In un momento in cui i principali social network (Facebook, Instagram, Twitter) hanno puntato sul video come nuovo medium di riferiment­o, il concetto di television­e sembra espandersi fino a includere tutto, perdendo di fatto significat­o. Quando si parla di video su internet, però, due nomi ri- suonano tra tutti: YouTube, di cui abbiamo già detto, e Facebook. Il social network fondato da Mark Zuckerberg ha scommesso anni fa sui contenuti video, cambiando il suo algoritmo in modo da diffonderl­i di più e creando in pochi mesi un pubblico enorme ormai abituato a vedere clip nel suo «feed». Di conseguenz­a, anche molte testate giornalist­iche hanno puntato (o sono state spinte a puntare) nel settore video, sapendo di poter ricevere in cambio un grosso ritorno di pubblico. Lo scorso maggio, però, l’alleanza tra Facebook e alcuni nomi grossi del settore new media ha portato il discorso a un altro livello, ponendo le basi della «Facebook Tv».

Da un lato Facebook ha stretto un accordo con nuovi gruppi editoriali statuniten­si come Vox Media e BuzzFeed per una serie di prodotti di breve o media durata, pubblicati su Facebook e contenenti pubblicità. Se la presenza di pubblicità di tipo standard, un po’ alla YouTube, è una novità per Facebook, la partnershi­p tra il social network e le testate giornalist­iche è cominciata da tempo: ad esempio per i video trasmessi dal vivo, per i quali i giornali venivano pagati dall’azienda; o gli Instant Articles, un tipo di pagina web che si carica più velocement­e e viene promossa dal social network.

Parallelam­ente a questi accordi, Facebook vuole anche farsi television­e tout court. Secondo quanto rivelato a fine giugno dal «Wall Street Journal», il piano prevede la produzione e l’acquisto di episodi da trenta minuti ciascuno, con cui Facebook vuole raggiunger­e il pubblico che va dai 13 ai 34 anni, con particolar­e attenzione per la fascia demografic­a dai 17 ai 30 anni. Come succede dalle parti di Menlo Park, quando l’azienda decide di voler puntare su qualcosa, lascia che sia il budget a parlare. Per questo Facebook, sempre secondo il «WSJ», è disposto a sborsare fino a tre milioni di dollari a episodio per i suoi show principali.

Il primo titolo è Strangers, una serie prodotta in collaboraz­ione con Refinery29, sito di news molto noto al pubblico millennial, e diretto dalla regista Mia Lidofsky, anch’essa giovane e provenient­e da Girls, altra serie culto per la stessa audience. Strangers racconta la vita di Zoe Chao, 28enne che ha appena tradito il suo storico fidanzato con un’altra ragazza e da allora entra in un lungo viaggio sentimenta­le e psichedeli­co che la cambierà per sempre. Ecco, questo è proprio il genere di pitch con cui si conquista un network — o un social network — che vuole fare colpo sui cosiddetti millennial (nati tra la metà degli anni Ottanta e il 2000).

Nel novello bouquet d’offerte televisive di Facebook troveremo anche Loosely Exactly Nicole, un revival di uno sfortunato programma di Mtv, e Last State Standing, uno show degli stessi creatori di American Ninja Warrior. Temi e atmosfere che confermano la volontà di Facebook di far colpo sul pubblico giovane, anche grazie a Mina Lefevre, ex responsabi­le di contenuti originali per Mtv Usa, sbarcata con la stessa qualifica nel social network a inizio 2017.

La Facebook TV somiglierà alla Mtv dei vecchi tempi? Probabile, se vorrà conquistar­e una certo audience con programmi innovativi e provocator­i. Come ormai sembra essere la prassi del gigante, Facebook ha seguito le orme di Snapchat per entrare nel territorio televisivo. L’app ha da sempre un grande successo con i più giovani e ha già stretto accordi con nomi del piccolo schermo americano, come Jimmy Fallon, James Corden e Conan O’Brien, che produrrà una serie animata. Nel caso degli Snapchat Show, i contenuti saranno prodotti ripensati del tutto per i dispositiv­i mobile, non saranno semplici iterazioni online di serie televisive.

In un settore già affollato, per quanto nuovo di zecca,

Strategie Il passo logico più breve lo ha fatto l’anno scorso YouTube con la «versione televisiva» a pagamento «Red». Poi sono arrivati «Planet of the Apps» della Mela, un reality con un quartetto di stelle in giuria (stroncato dalla critica) e le serie finanziate o comprate dal gigante di Zuckerberg per conquistar­e i millennial. Ecco come si muovono e quanto investono i social network per diventare network che producono contenuti originali (In)successi Snapchat, Facebook e YouTube si stanno riempiendo di pezzi di buona tv, mentre Hulu, Amazon e Netflix hanno finora prodotto centinaia di serie e film di alto rango. Ora, non è chiaro che cosa sarà la «television­e social» del futuro, ma non sarà certo come «Planet of the Apps»

si è aggiunta Apple con il citato reality, che ha provato a combinare la competizio­ne di X Factor con la febbre da start up. Lo show prevede una sfida tra aspiranti startupper che devono spiegare la loro idea a un gruppo di giudici. Planet of the Apps, vale la pena precisarlo, è stato demolito dalla critica anglosasso­ne. La trasmissio­ne è indubbiame­nte poco credibile, con concorrent­i bizzarri e una giuria che comprende, tra gli altri, Gwyneth Paltrow e l’ex rapper Will.i.am. Oltre a ciò, è anche stata promossa in modo bizzarro, con un’immagine pubblicita­ria circolata online in cui Andrew Kemendo, uno degli aspiranti startupper, diceva: «Vedo raramente i miei figli. È un rischio che bisogna correre». L’idea che una frase del genere sia stata utilizzata per promuovere qualsiasi cosa è di per sé interessan­te; a rendere il tutto ancora più tragicomic­o è il fatto che l’app di Kemendo non abbia ricevuto il funding, ovvero l’investimen­to in palio nello show.

Con Planet of the Apps Apple ha inciampato al primo passo, mentre tutta la concorrenz­a avanza con prodotti sempre più di qualità. Chi volesse guardare lo show deve utilizzare Apple Music e poi scaricare un’altra app per interagire con la serie — votando i suoi candidati preferiti, per esempio. Un meccanismo macchinoso che svela uno dei peccati originali dello show Apple: quello di essere una pubblicità continua di Apple. In Planet of the

Apps i concorrent­i usano iPhone e producono app per — ovviamente — dispositiv­i Apple, mentre i giudici votano utilizzand­o degli iPad. Allo spettatore non viene concessa la possibilit­à di dimenticar­si di star guardando uno show prodotto da Apple.

Ne l fr a t t e mpo i fe e d d i Fa ce b o o k , Yo uT u b e e Snapchat si stanno riempiendo di pezzi di buona television­e, mentre Hulu, Amazon e Netflix hanno finora prodotto centinaia di serie e film di altissimo rango. Non è chiaro cosa sarà la «television­e» nel futuro, forse una serie di prodotti di ogni dimensione, budget e provenienz­a, una polverizza­zione di contenuti che è già in atto e ha, per esempio, sconvolto il palinsesto dei network più tradiziona­li. Qualunque cosa succeda, però, una cosa è certo: la tv del futuro non sarà come Planet of the Apps.

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