Corriere della Sera - La Lettura
L’ultimo (un po’) ottimista Su Amazon la sua riscossa
La serie «The Last Tycoon» Fitzgerald
Si tratta di una delle frasi più famose di Fitzgerald, la più bistrattata, più fraintesa: «Non esistono secondi atti nelle vite americane». Un passaggio di The Last Tycoon (1941), romanzo incompiuto, pubblicato un anno dopo la sua morte e uscito in Italia come Gli ultimi fuochi (Mondadori). Ispirato alla vera storia di Irving Thalberg, enfant prodige di Hollywood che contribuì a creare la Mgm, portandola al successo per poi morire giovanissimo nel 1936, The Last Tycoon è ora una grande serie Amazon, dal 28 luglio su Prime Video dopo il pilot distribuito negli Usa un anno fa e l’anteprima mondiale al Festival della tv di Montecarlo. Nei ruoli principali, del produttore dal fiuto infallibile Monroe Stahr e il suo mentore e in seguito nemico Pat Brady (il boss della Mgm Louis B. Mayer), ci sono Matt Bomer di The Normal Heart e Kelsey Grammer di Frasier. Accanto a loro Rosemary DeWitt e Lily Collins, madre e figlia Brady in competizione per le attenzioni di Stahr, e Jennifer Beals. Curato dal critico Edmund Wilson, amico ed esecutore letterario di Fitzgerald, The Last Tycoon ispirò già nel 1957 una pièce televisiva con Jack Palance, oltre a uno sfortunato film con Bob De Niro del 1976, sceneggiato dal Nobel Harold Pinter per la regia di Elia Kazan. Nel rimaneggiare il materiale, Wilson si era preso varie libertà, ma lasciò intatte le note di Fitzgerald, allegandole alla propria edizione. Attenendosi a esse, nel 1993, lo storico Matthew Bruccoli curò una versione più fedele. A partire dal titolo: The Love of the Last Tycoon, pubblicato in Italia nel 2012 come L’amore dell’ultimo milionario (traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini, Alet).
Creata dallo sceneggiatore di Hunger Games Bill Ray, The Last Tycoon, che attinge anche agli autoironici Racconti di Pat Hobby (1940-41) su uno sceneggiatore alcolizzato, è una riflessione sullo scontro tra ambizione artistica e interessi economici, le profonde diseguaglianze del tempo, razzismo, sessismo e classismo. Consulente di produzione è il Pulitzer A. Scott Berg, autore di una biografia di Maxwell Perkins, il leggendario editor di Scribner che scoprì Fitzgerald. Ma chiunque abbia letto Fitzgerald sa che, come Gatsby e gli altri, il vero modello per Stahr era lui stesso, a sua volta wonder boy della scrittura (il suo primo romanzo, Di qua dal Paradiso, fu pubblicato a 23 anni) e in seguito snobbato. Nel 1937, indebitato e alcolizzato, dopo il ricovero della moglie Zelda nell’ospedale psichiatrico in cui sarebbe morta, Fitzgerald, pur trovando «degradante» scrivere per il cinema, firmò un ricco contratto con la Mgm e, come avevano o avrebbero fatto da Dorothy Parker ad Aldous Huxley, si trasferì a Hollywood.
Sopravvisse due anni e mezzo, tra un disastro e l’altro: da Via col vento, dove gli venne proibito di utilizzare parole che non fossero nel testo della Mitchell, a un film sull’adulterio per Joan Crawford cassato per il tema scottante. Dileggiato, recalcitrante, paragonato da Billy Wilder a un grande scultore assunto come idraulico, fu allora che Fitzgerald iniziò a lavorare a The Last Tycoon, riversandovi le ansie e il senso di fallimento di quei mesi. «Gli sceneggiatori — scriverà — sono i braccianti di quest’industria. Coltivano il grano, ma non prendono parte al banchetto».
Così, nella serie, centrale per il personaggio di Stahr è l’ossessione per il proprio lascito, quel marchio sulla storia del cinema che gli avrebbe garantito l’immortalità. Anche Fitzgerald cercava l’immortalità, e credeva di averla perduta. Nella frase sui secondi atti parlava di sé, ma si sbagliava: e dopo la sua morte sarebbe diventato il più grande secondo atto della letteratura americana. Tuttavia il fatto che anni prima, in un saggio su New York, avesse usato, per rinnegarla, proprio quella stessa frase, fa ipotizzare un Fitzgerald più ottimista, che vedeva in The Last Tycoon il suo secondo atto. E chissà che il terzo atto di Fitzgerald non sia la sua attuale riscoperta. Dopo il Gatsby di Baz Lurhmann con DiCaprio (2013), dopo la serie Z: The Beginning of Everything, già in onda su Amazon, e in attesa dei due film su Zelda con Jennifer Lawrence e Scarlett Johansson. Se Christina Ricci in è inadatta al ruolo di Zelda, se i film la rileggeranno in chiave femminista gettando ombre sul marito, il nuovo adattamento di The Last Tycoon, che affronta le complessità del romanzo in un presente altrettanto diviso, rende l’eredità di Fitzgerald più importante che mai.
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