Corriere della Sera - La Lettura
Amo i difetti di Nabokov
Giganti che sbagliano Dell’autore di «Lolita», John Cheever diceva che ogni tanto commette degli errori. Ora, questa storia è abbastanza evidente in «La gloria», il quinto romanzo russo, uscito nel 1932 e adesso proposto in Italia, dove affronta per la pr
In quel miracolo di eleganza, umiltà, tenerezza, malignità e depravazione che è il diario di John Cheever c’è una frase sulla quale chissà perché a suo tempo la mia matita si soffermò con particolare enfasi: «Ho letto Nabokov, che ha uno stile fiorito e che ogni tanto sbaglia e mi fa rilassare». Un commento ambiguo. Cosa rilassa Cheever precisamente? Lo stile fiorito? O che ogni tanto anche a un virtuoso del genere capiti di sbagliare? Non lo sapremo mai.
Più produttivo, anche se meno interessante, interrogarsi sull’accanimento della mia matita su un pensierino così enigmatico. Anch’io trovavo rilassante l’idea di un Nabokov in difficoltà? O forse al tempo della sottolineatura ritenevo che tutti potessero sbagliare, tranne Nabokov? Una cosa è certa: se lui sbaglia non lo fa mai per difetto; i suoi errori nascono sempre da un eccesso di spavalderia o esuberanza. Per quella che Martin Amis chiama la sua anima «patrizia», notando come di fondo i personaggi nabokoviani abbiano tutti «la puzza sotto il naso: anziché camminare, incedono, anziché masticare, sbocconcellano». Il che comporta un deficit di naturalezza, un surplus di artificio che può persino irritare coloro che amano gli autori con il cuore in mano. Mi guardo bene dall’annoverarmi tra costoro naturalmente, però posso capirli. Come scrissi anni fa (e chiedo scusa per l’autocitazione) il complesso di superiorità di Nabokov è tale da costringere anche i suoi esegeti più entusiasti a guardarlo dal basso in alto. Il che, devo confessarlo, produce danni permanenti alla cervicale. Non a caso una volta quando gli chiesero in che posizione collocasse se stesso nel panorama della letteratura contemporanea rispose con la solita civetteria: «Da quassù si gode di un’ottima vista». C’è addirittura chi è arrivato a ipotizzare che il tardivo e insperato successo di Lolita lo abbia fatto impazzire, che niente di ciò che scrisse dopo (neppure Fuoco pallido o Ardore) valgano il prezzo di copertina. Un giudizio assurdamente severo che possiede tuttavia un’oncia di verità considerando che nessun romanzo scritto dal Nabokov ormai celebre e adulato vale Il dono, Parla, ricordo, Lolita, e io aggiungerei anche Pnin e il saggio su Gogol. Ma questi sono solo i pareri di un vecchio fan sfegatato. Uno di quei supporter imbolsiti che, superata l’età dell’idolatria, possono sospi- rare senza tremori reverenziali: «Ok, anche lui talvolta sbaglia e questo è davvero rilassante».
È un po’ come il bizzarro personaggio di quel romanzo di Thomas Bernhard che ogni due giorni si reca nella Pinacoteca di Vienna e siede per ore di fronte a un ritratto di Tintoretto, al solo scopo di scovare un difetto, un’imperfezione, un’incrinatura in tanta sublimità. Arriva il momento in cui gli errori di un artista sono quasi più interessanti dei suoi successi. L’evoluzione del rapporto con uno scrittore che veneri da molti anni somiglia parecchio alla lunga consuetudine coniugale: se un giorno remoto ti innamorasti dei pregi di tua moglie, è giunto il tempo di imparare ad amarne i difetti.
Del resto, la straordinaria fortuna di Lolita gettò una luce retrospettiva, calda e benevola, sull’intera produzione di Nabokov. Lui, con l’aiuto della moglie, del figlio e di chissà chi altro, s’incaricò con proverbiale scrupolo delle traduzioni inglesi dei suoi romanzi russi. Se di traduzioni si può parlare, visto che sono auten- tiche riscritture, decorate da prefazioni nelle quali Nabokov al solito bacchetta i critici ancor prima che essi, poveretti, abbiano potuto leggere il libro in santa pace. Senza mai tralasciare di inveire contro Freud, i suoi seguaci e i seguaci dei suoi seguaci. Da anni ormai Adelphi ci regala questi gioielli riesumati. Ora è il turno della Gloria e se i miei calcoli sono esatti temo che la festa finisca qui, almeno per quanto riguarda i romanzi. Spero solo che l’editore faccia un ultimo generoso sforzo, traducendo l’epistolario e rieditando le lezioni.
La gloria è il quinto romanzo russo. Uscito nel 1932 quando Nabokov aveva raggiunto l’età cristologica di trentatré anni, per la sua versione inglese dovette attendere altri quattro decenni. In esso Nabokov affronta per la prima volta a muso duro i fantasmi della sua «tragedia privata»: la fuga dall’Eden, l’esilio, i tediosi anni del College riscattati dalla nostalgia, dal cameratismo e dalla competizione sportiva. Chi ha pratica dei libri di Nabokov ritroverà alcuni temi affrontati con ben altra consapevolezza morale e stilistica ne Il dono, La vera vita di Sebastian Knight, Parla, ricordo e Guarda gli arlec-