Corriere della Sera - La Lettura
Canto la quinta delle quattro stagioni
Congedi Nelle sezioni della nuova raccolta, Renzo Paris sembra voler mettere la parola fine alla sua vicenda di autore in versi. Eppure i testi tradiscono una fame di vita tutt’altro che senile Ispirazione Talvolta prevale il partito preso ideologico, il meglio arriva quando la critica sociale e politica non si distingue dalla sfera privata
Fermo restando che la storia della poesia è piena zeppa di conclusioni annunciate e poi disattese, con la sua nuova raccolta di versi,
Il mattino di domani ( El l i ot ) , Renzo Paris sembra davvero aver voluto mettere la parola fine alla sua vicenda di poesia. Il libro si conclude infatti con una specie di congedo dalla vita. Del resto, la prospettiva a cui danno adito nel complesso queste poesie appare molto dura, lucida, disincantata. «Io canto quando/ sento che qualcosa muore»: basterebbe leggere un passo simile per averne conferma, e aggiungere soltanto che questo qualcosa, anzi questo qualcuno, è lui, il poeta che parla in prima persona.
Per un verso si direbbe che questo sguardo ultimativo, se non ormai postumo, portato su di sé e sulla vita (ma anche sulla storia), appartenga a un modo terminale o testamentario che risulta tra i più caratterizzanti della poesia italiana degli ultimi decenni. «Muovo la biro come la lama/ dell’aratro e penso che sono/ diventato una grande attrazione// per la morte», ecco scrivere Paris; ma anche: «Sono affollato di voci/ e di nessuna realtà». Il sentimento di distacco, di lontananza, di privazione di tutto ciò che pure si ama o si vorrebbe amare, è uno dei motivi più importanti di questi versi. Forse addirittura il più consapevole e appariscente. Con tutto ciò che volta a volta questo compor- ta: amarezza, indignazione, ombrosità, mestizia, malinconia. Eppure Il mattino
di domani è un libro dalle pulsazioni fitte e intense. Un libro febbrile, affamato, vitale e, insomma, tutt’altro che arreso. Non a caso proprio la parola vita sembra essere l’unica davvero irrinunciabile per un autore, un uomo, che ha sempre e comunque bisogno di amare, vedere, toccare, sentire, possedere, desiderare, raccontare.
Non si tratta dunque di una semplice riparazione poetica, come si potrebbe forse pensare: la diminuzione esistenziale più o meno compensata dall’intensificazione estetica. Certo l’arte del verso, tanto più per un poeta che ha ben presente il magistero dei latini, importa inevitabilmente anche per questo. Ma è vero che è sempre ciò che sta al di là della pagina — il respiro e lo spettacolo di una realtà magari in via di sottrazione, ma non per questo meno forte e attraente — il richiamo primo e ultimo del poeta. A ogni parola si
avvertono infatti una premura, un’impazienza, un trasporto che non danno tregua. I segnali negativi sono moltissimi: storici, sociali, culturali, e più di tutto, come detto, personali. Eppure la spinta interiore di queste poesie appare fortissima, al punto da generare un’eccedenza, il senso di qualcosa che non può restare inchiodato nella pagina, come se Paris non potesse, magari anche contro il proprio volere, diventare saggio, equilibrato, distaccato; in una parola, mettersi il cuore in pace. Il suo tono fondamentale, la sua energia di vita (non si sa chiamarla diversamente) finiscono infatti per sconfessare il progetto esistenziale, negando legittimità ora all’afflizione e al compianto di sé, ora alla rinuncia, a una senilità fatta di soli ricordi, all’accettazione del destino.
Queste sono poesie in battere, non in levare. Tra amore e disamore, tra il risentimento e il credito concesso comunque alla vita, accade così che alcuni passaggi tra i più fortunati e qualificanti della raccolta si reggano proprio su una simile coesistenza e contraddizione. Un esempio soltanto: «Le mie terzine sono intrise, ne/ convengo, della mia ridicola/ vecchiaia. Pieno di desideri e senza// desiderio, canto la malattia mortale dell’amore».
Ma è la struttura stessa del libro, che è costruito sul movimento ciclico delle quattro stagioni (corrispondenti ad altrettante sezioni), a dire di questa oscillazione tra distacco e partecipazione, tra dismissione e attesa. E certo si tratta di poesie straordinariamente gremite di persone, accadimenti, figure, molto spesso evocate in un sogno fatto a occhi aperti o nella memoria, ma sempre con una parola diretta, priva di reticenze (e di questo ben consapevole, talora anche un po’ compiaciuta): i tanti ricordi dell’infanzia abruzzese e poi di Roma, qualche antica amicizia, qualche viaggio, le passioni di gioventù, gli «amori senili», gli stranieri, le giovani immigrate, lo sguardo e la passione portata verso un’umanità che fino a oggi ha trovato poca ospitalità e comprensione nella nostra poesia.
Al riguardo, è vero, qui e là non mancano alcuni testi in cui prevale il partito preso ideologico, mentre il meglio arriva quando la critica sociale e politica non si riesce a distinguere dalla dimensione privata. È come se il camminatore delle «passeggiate romane», che è il protagonista assoluto della poesia di Paris (nel richiamo a Baudelaire e Apollinaire, poeti che ha studiato e tradotto), si fosse ritratto sempre più, non importa se nella propria mente o nella propria stanza, per prendere le misure a se stesso. Ma sempre attraverso lo spettacolo del mondo, sempre e soltanto attraverso il desiderio e la passione per la vita: «O luce della vita, non/ abbandonarmi finché non ho/ terminato il mio libro delle stagioni,// lascia che abbiano fine le mie canzoni».