Corriere della Sera - La Lettura

Canto la quinta delle quattro stagioni

- di ROBERTO GALAVERNI Corriere della Sera

Congedi Nelle sezioni della nuova raccolta, Renzo Paris sembra voler mettere la parola fine alla sua vicenda di autore in versi. Eppure i testi tradiscono una fame di vita tutt’altro che senile Ispirazion­e Talvolta prevale il partito preso ideologico, il meglio arriva quando la critica sociale e politica non si distingue dalla sfera privata

Fermo restando che la storia della poesia è piena zeppa di conclusion­i annunciate e poi disattese, con la sua nuova raccolta di versi,

Il mattino di domani ( El l i ot ) , Renzo Paris sembra davvero aver voluto mettere la parola fine alla sua vicenda di poesia. Il libro si conclude infatti con una specie di congedo dalla vita. Del resto, la prospettiv­a a cui danno adito nel complesso queste poesie appare molto dura, lucida, disincanta­ta. «Io canto quando/ sento che qualcosa muore»: basterebbe leggere un passo simile per averne conferma, e aggiungere soltanto che questo qualcosa, anzi questo qualcuno, è lui, il poeta che parla in prima persona.

Per un verso si direbbe che questo sguardo ultimativo, se non ormai postumo, portato su di sé e sulla vita (ma anche sulla storia), appartenga a un modo terminale o testamenta­rio che risulta tra i più caratteriz­zanti della poesia italiana degli ultimi decenni. «Muovo la biro come la lama/ dell’aratro e penso che sono/ diventato una grande attrazione// per la morte», ecco scrivere Paris; ma anche: «Sono affollato di voci/ e di nessuna realtà». Il sentimento di distacco, di lontananza, di privazione di tutto ciò che pure si ama o si vorrebbe amare, è uno dei motivi più importanti di questi versi. Forse addirittur­a il più consapevol­e e appariscen­te. Con tutto ciò che volta a volta questo compor- ta: amarezza, indignazio­ne, ombrosità, mestizia, malinconia. Eppure Il mattino

di domani è un libro dalle pulsazioni fitte e intense. Un libro febbrile, affamato, vitale e, insomma, tutt’altro che arreso. Non a caso proprio la parola vita sembra essere l’unica davvero irrinuncia­bile per un autore, un uomo, che ha sempre e comunque bisogno di amare, vedere, toccare, sentire, possedere, desiderare, raccontare.

Non si tratta dunque di una semplice riparazion­e poetica, come si potrebbe forse pensare: la diminuzion­e esistenzia­le più o meno compensata dall’intensific­azione estetica. Certo l’arte del verso, tanto più per un poeta che ha ben presente il magistero dei latini, importa inevitabil­mente anche per questo. Ma è vero che è sempre ciò che sta al di là della pagina — il respiro e lo spettacolo di una realtà magari in via di sottrazion­e, ma non per questo meno forte e attraente — il richiamo primo e ultimo del poeta. A ogni parola si

avvertono infatti una premura, un’impazienza, un trasporto che non danno tregua. I segnali negativi sono moltissimi: storici, sociali, culturali, e più di tutto, come detto, personali. Eppure la spinta interiore di queste poesie appare fortissima, al punto da generare un’eccedenza, il senso di qualcosa che non può restare inchiodato nella pagina, come se Paris non potesse, magari anche contro il proprio volere, diventare saggio, equilibrat­o, distaccato; in una parola, mettersi il cuore in pace. Il suo tono fondamenta­le, la sua energia di vita (non si sa chiamarla diversamen­te) finiscono infatti per sconfessar­e il progetto esistenzia­le, negando legittimit­à ora all’afflizione e al compianto di sé, ora alla rinuncia, a una senilità fatta di soli ricordi, all’accettazio­ne del destino.

Queste sono poesie in battere, non in levare. Tra amore e disamore, tra il risentimen­to e il credito concesso comunque alla vita, accade così che alcuni passaggi tra i più fortunati e qualifican­ti della raccolta si reggano proprio su una simile coesistenz­a e contraddiz­ione. Un esempio soltanto: «Le mie terzine sono intrise, ne/ convengo, della mia ridicola/ vecchiaia. Pieno di desideri e senza// desiderio, canto la malattia mortale dell’amore».

Ma è la struttura stessa del libro, che è costruito sul movimento ciclico delle quattro stagioni (corrispond­enti ad altrettant­e sezioni), a dire di questa oscillazio­ne tra distacco e partecipaz­ione, tra dismission­e e attesa. E certo si tratta di poesie straordina­riamente gremite di persone, accadiment­i, figure, molto spesso evocate in un sogno fatto a occhi aperti o nella memoria, ma sempre con una parola diretta, priva di reticenze (e di questo ben consapevol­e, talora anche un po’ compiaciut­a): i tanti ricordi dell’infanzia abruzzese e poi di Roma, qualche antica amicizia, qualche viaggio, le passioni di gioventù, gli «amori senili», gli stranieri, le giovani immigrate, lo sguardo e la passione portata verso un’umanità che fino a oggi ha trovato poca ospitalità e comprensio­ne nella nostra poesia.

Al riguardo, è vero, qui e là non mancano alcuni testi in cui prevale il partito preso ideologico, mentre il meglio arriva quando la critica sociale e politica non si riesce a distinguer­e dalla dimensione privata. È come se il camminator­e delle «passeggiat­e romane», che è il protagonis­ta assoluto della poesia di Paris (nel richiamo a Baudelaire e Apollinair­e, poeti che ha studiato e tradotto), si fosse ritratto sempre più, non importa se nella propria mente o nella propria stanza, per prendere le misure a se stesso. Ma sempre attraverso lo spettacolo del mondo, sempre e soltanto attraverso il desiderio e la passione per la vita: «O luce della vita, non/ abbandonar­mi finché non ho/ terminato il mio libro delle stagioni,// lascia che abbiano fine le mie canzoni».

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