Corriere della Sera - La Lettura
Il Cristo antimoderno del Sud d’Italia
Il Meridione è la nuova Terrasanta
Comincio con una storia della quale non ho motivo di dubitare. Durante un soggiorno ad Assisi nel 1962, Pier Paolo Pasolini aprì il Nuovo Testamento che era nella sua camera d’albergo e lesse il Vangelo di Matteo da cima a fondo. Fu una rivelazione, e non necessariamente di tipo religioso. Decise che voleva ri-raccontare il Vangelo, seguendo fedelmente l’evangelista, ma con i propri mezzi artistici. Chiese il sostegno di Pro Civitate Christiana, un organismo che finanzia la cultura cattolica. Pro Civitate concesse il finanziamento e gli organizzò un viaggio di ricognizione in Palestina. Il rapporto con Pro Civitate è tanto più sorprendente giacché poco prima Pasolini aveva girato il cortometraggio La ricotta, un’opera di feroce satira che misura la distanza tra Gesù e il cristianesimo istituzionale. La ricotta era stato denunciato (più dalle autorità civili che dalla Chiesa) come un attacco alla religione ed era stato fatto tutto il possibile per impedirne la distribuzione.
Nel caso del Vangelo secondo Matteo Pasolini s’impegnò a lavorare con Pro Civitate nello spirito dell’enciclica Pacem in Terris di Giovanni XXIII. Il film uscì come previsto nel 1964 e fu commentato dall’Ufficio cattolico internazionale del cinema: «L’autore — senza rinunciare alla propria ideologia — ha tradotto fedelmente, con una semplicità e una densità umana, talvolta assai commoventi, il messaggio sociale del Vangelo — in particolare l’amore per i poveri e gli oppressi — rispettando sufficientemente la dimensione divina di Cristo. Per la semplicità del suo stile e grazie all’umiltà con la quale il regista presenta i personaggi, quest’opera è molto superiore ai precedenti film commerciali sulla vita di Cristo». Sia il pubblico che la Chiesa accolsero molto bene il film.
Il Gesù del Vangelo è irriducibilmente schierato con i poveri e con i deboli, con i dimenticati della società. È interpretato da Enrique Irazoqui, un giovane spagnolo, doppiato da un attore italiano. L’interpretazione di Irazoqui è magistrale, ma il suo Gesù — un misto di vulnerabilità femminile, rabbia trattenuta a stento e rigore disumano — non è di certo un Gesù per i bambini dell’asilo.
Il Gesù di Pasolini è un predicatore carismatico; ma è anche un essere divino? Un Dio che ha temporaneamente assunto forma umana? Pasolini è riuscito ad aggirare l’interrogativo ridefinendo il divino come superumano: «Io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono credente. (...) Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale, da andare al di là dei comuni termini dell’umanità».
Affermò anche (cosa per me più interessante): «Non sono interessato a demistificare: è una moda piccoloborghese che odio. Io voglio riconsacrare il più possibile le cose, voglio re-istituirne il mito». Il Vangelo non è un tentativo di rappresentare il Gesù della storia, qualsiasi cosa questo significhi, ma un tentativo di abitare nuovamente il Gesù mitico, Gesù, così come è percepito dall’anima e dalla mente mitica, premoderna.
Il Vangelo non fu girato in Palestina, come prevedeva il progetto iniziale. La ragione addotta da Pasolini fu che il paesaggio palestinese gli sembrava contenere troppe tracce visive dei progetti israeliani di modernizzazione. La Palestina dei tempi di Gesù in effetti era stata cancellata. Motivo per cui decise di trasferire il film in Italia. «Al mondo pastorale agricolo feudale degli ebrei», scrive, «ho sostituito di peso il mondo analogo del Meridione d’Italia (coi suoi paesaggi, di umili e di potenti)». La parola chiave qui è umile. In Palestina, si era aspettato di trovare la grandezza arcaica dei siti famosi — Nazareth, il lago di Galilea, Betlemme, il Getsemani, la Via Dolorosa — tanto quei nomi erano intrisi di senso religioso. Ma la sua impressione immediata fu quella della loro «estrema piccolezza, povertà, umiltà».
E il Meridione d’Italia dove decise di ri-raccontare l’Evangelo — e questo è un punto importante — ai suoi occhi non era solo la migliore approssimazione al probabile aspetto della Palestina di duemila anni fa. Allo stesso modo, le fisionomie arcaiche trovate in Calabria non erano solo il corrispettivo fisiognomico dei poveri seguaci di Cristo. La Calabria era povera e umile come la Terrasanta perché era una fascia di Terzo Mondo nel territorio di una nazione del Primo Mondo, un Sud del mondo oppresso e sfruttato da un Nord capitalista. E intorno agli anni Sessanta la sua stessa cultura arcaica stava ormai finendo, strangolata dalla modernità capitalista. Come fa notare Sam Rohdie, «la passione sociale riformista e la rabbia del Cristo di Pasolini venivano da un’indignazione nei confronti del presente. Cristo, come Pasolini, era un antimoderno. Era il contadino, figlio ubbidiente di Giovanni XXIII». Giovanni XXIII, che rappresentava a sua volta una regressione al passato arcaico.
La dialettica tra Palestina e Meridione d’Italia non si ferma qui. Il Meridione del presente (1964) è ciò che la Palestina era allora. E, per un’inevitabile logica storica, diventerà quello che la Palestina era in quel momento. Il Meridione del 1964 è ancora attaccato al sacro che il mondo moderno ha cancellato in Palestina, ma il sacro sarà a sua volta cancellato nel Meridione. Ne consegue il tono fieramente elegiaco che domina Il Vangelo secondo Matteo: per salvare il mondo è necessario salvare il passato, ma il passato è agli sgoccioli. Alla fine di quel decennio Pasolini sarebbe arrivato a disperare di fronte allo spettacolo del passato che andava scomparendo in tutto il mondo sotto i colpi del consumismo capitalista.
Non sarebbe eccessivo affermare che attraverso il cinema Pasolini trasforma quelle terre d’Italia nella Terrasanta e quel mondo contadino in quello dei figli di Dio. La cosa è perfettamente coerente con la cristologia medievale: il Figlio di Dio storico ha visitato la Palestina, il figlio di Dio anagogico ci visita ovunque noi siamo. Nel cinema, l’equivalente anagogico dello Spirito Santo è la luce. La luce dà vita al mondo.
Il Vangelo poi torna al cristianesimo medievale per un altro aspetto. Il modo in cui il volto e il corpo umano sono presentati nel film è essenzialmente frontale. Fa pensare all’iconografia bizantina o alla prima arte italiana: Giotto, Piero della Francesca. Il paesaggio della Basilicata e Matera sono lo sfondo di una ricca tessitura di facce, corpi, vesti. Nelle sue Confessioni tecniche del 1966 Pasolini descrive l’approccio adottato per il film. Il principio di fondo era «Sacralità = frontalità». Gli obiettivi scelti erano quelli che «appesantiscono la materia, esaltano il tuttotondo, il chiaroscuro, danno grevità e spesso sgradevolezza del legno tarlato o molle pietra alle figure ecc. Specie se usati con la luce “sporca” — il controluce (...) che scava le orbite degli occhi, le ombre sotto il naso e intorno alla bocca». L’uso di un obiettivo 300 mm gli permise di ottenere insieme due effetti: schiacciare e quindi rendere ancora più pittoriche le figure, e nel tempo stesso dar loro l’immediatezza del documentario di attualità. Così una tecnica mutuata dal reportage sportivo gli permise di arrivare «a una presenza iconica dell’immagine» (Steimatsky).